• Seguici su:
LA MORTE DI BUNNY MUNRO, di Nick Cave
Che cosa sarebbe la letteratura senza la metafora? E come riusciremmo a spiegare una cosa, una sensazione, una persona anomale, che ci sfuggono, senza i paragoni? A vent’anni dal suo primo romanzo E l’asina vide l’angelo, Nick Cave - 1957 - continua a scrivere,ma in questo caso non canzoni, che “gli costano ognuna più di un parto”, ma il suo riuscitissimo - e per lui facilmente felice - secondo libro, piazzandosi ben oltre e ben sopra le sue già notevoli qualità di celebre musicista. Come ne La strada di Corman Mc Carthy, siamo compagni di avventura del breve tragitto di un padre e un figlio ragazzino. Ma l’apocalisse che devono affrontare non è fatta di silenzi fantascientifici e di mondi spettrali, bensì di una quotidianità che ha i colori accesi e al tempo stesso esagerati - non falsi - dei tubi al neon, delle bibite estive, delle magliette e dei lecca lecca anni 60. Colori di plastica, ispirati dalla natura per essere stravolti. Colori di una quotidianità allucinata, vuoi perché tale in assoluto, come ultimo sussulto  prima della fine dei mondi, vuoi perchè vista con gli occhi di un uomo ossessionato dal sesso e di fatto alcolizzato, che tenterebbe di campare facendo l’improbabile rappresentante di prodotti di bellezza per signore. Come invitare un ruminante a pascolare, anche se i suoi desideri più artisticamente ispirati  sono incarnati da Kilye Minogue e da Avril Lavigne, anzi da una loro precisa parte anatomica. Stretti tra una fine ed una fine, siamo dentro un libro che impasta, stinge e compenetra vitalità e  dolore, sfide e  paure, incoscienze e consapevolezze, cinismo e umorismo e tenerezza, secondo le insondabili rotondità di scrittura tridimensionale tipiche delle cazzottate di  John Lansdale. E con la capacità di inventare e dettagliare i personaggi  e le anime mediante piccoli tocchi ripetitivi  discendenti dai fratelli Cohen. E potremmo continuare con i paragoni, per un libro che si può più bere o ballare o piangere, che leggere e descrivere. E, se avesse scritto di più, potremmo dire al ritmo originale e dunque  inconfondibile di Nick Cave.
Marinella Doriguzzi
24 novembre, 2009 - 00:08
Stanley Kubrick
KUBRICCHIANUS’S COMPLAINT Creatura sommamente infelice, l’orfano più orfano della storia del cinema, il Kubricchianus Melanchonicus è un animale in via di estinzione del quale si può constatare che è eternamente, da qui il nome scientifico, abbattuto. L’esemplare - esiste solo la specie maschile poiché sembra che la madre ne figliò una cinquantina e poi si suicidò - ha un aspetto tra il rustico e il coroner. Veste una casacca da pizzicagnolo di colore azzurro, sdrucita dal continuo strofinio sulla stessa di vetuste pellicole acquistate negli antri dove i Lumiére aspettarono il treno che per nostra sfortuna non li travolse o gli operai che uscivano dalla fabbrica e a momenti gliele menavano (se guardate attentamente il filmino, vi accorgerete che più di un operaio si gratta le palle). Oltre all’aspetto trasandato, il Kubricchianus coltiva una barba lunghissima, ostile a qualsivoglia insaponatura o tosatura. Questo sembra essere un omaggio che i cinquanta esemplari, sparsi in tutto il mondo, rendono a un regista, della cui morte i nostri animali non si sono mai ripresi. Infatti, nei dagherrotipi che raffigurano il magister, l’uomo appare con lo sguardo velato da un blefarospasmo che zoologi accorti fanno risalire agli ultimi anni di vita del regista, quando, ormai quasi cieco e con un occhio distrutto dal morbo di Basedow, si ostinava a guardare in continuazione nel mirino, prima di fare il cinquecentesimo ciak di una fantomatica scala dell’orrore che molti kubricchiani citano a memoria frames for frames, aggiungendo che l’ignoto regista dall’occhio aperto-chiuso, fu elargito di un solenne “fuck off” da parte dell’attore di quella scena che in seguito, dicono i kubricchiani, si beccò una sciatica cronica. Il kubricchianus ama il cinema ma non ci va mai. Prima della morte del dottor Cyclops, ci andava sempre per urlare che il film che aveva visto non poteva reggere il confronto con gli arcani film del Dio-Regista. Dice: “Perché andare a vederli, tanto fanno tutti schifo…”, e storce il naso, mentre si passa le mani sulla casacca azzurra. “Lo so, non ho bisogno di vederli!”. Le poche volte che ha visto un film, è uscito nauseato dalla sala: “Ne approfittano perche Lui non c’è più!”, singhiozzava. Il kubricchianus è convinto che tutti i registi copino il de cuius. Un kubricchianus residente nella mia città (l’unico in Europa), una volta che lo trascinai legato a vedere Le iene, quando uscimmo sbottò in un: “Cazzo! Tutto copiato da Rapina a mano armata di Stan!”. Stan, solo questo ha detto, ma la mia mente non ha stabilito alcun collegamento tra le migliaia di registi esistenti ed esistiti e questo ignoto Stan. Il kubricchianus in versione invernale indossa un vecchio montgomery della Guerra Dei Sei Giorni, un lascito, dicono, di Moshe Dayan. Molti testimoniano di averlo visto inseguire un bambino nella neve, gridando a squarciagola: “Danny… Danny… where are you?”, altri che un giorno è entrato in un albergo di Cortina d’Ampezzo con una scure tra le mani, inveendo contro una turista tedesca parole senza senso: “Wendy… Wendy… life….”. I cinquanta kubricchiani del sito “Overlook Hotel” hanno commentato la vicenda, avanzando l’ipotesi che forse il Maestro non sia morto davvero e che abbia giocato un tiro mancino ai fans, che possa riapparire sotto mentite spoglie, magari senza la casacca, sbarbato come nelle foto giovanili – occhi-grandi-spalancati. E lo vedi il Kubricchianus rovistare nei nomi dei registi viventi, caso mai possa trovarci assonanze, anagrammi, calembour del nome del pater. Niente da fare: trovano solo Rubik, un rompicapo. Troppo poco. E continua a brontolare che Kubrick potrebbe essersi trasferito oltre la galassia, lo immaginano vecchio decrepito in un letto rococò mentre dirige l’indice scheletrico verso una lastra nera, oppure ringiovanito come Benjamin Button corteggiare una fascinosa fanciulla o solleticare l’alluce di una smorfiosa lolita. Perché per il Kubricchianus, pensare di vivere la vita che gli resta senza le visioni del Vate, è un esercizio di castità non richiesto. E se fosse ancora sul siluro a motteggiare il mondo come Jonathan Swift, e se camminasse tra la folla con le maschere della rapina e dell’orgia? O quel vecchio con l’occhio dilatato, pestato a Londra, un mese fa, di notte, da un gruppo di teppisti? Ci siamo: c’è un solo regista che gli somiglia, uno che si è fatto fotografare poche volte; la barba ce l’ha, è un po’ più giovane, ma indossa i bretelloni jeans come i bovari; sembra che in trentadue anni abbia girato solo quattro film, cazzo!, Stan una dozzina, quasi tutti, tranne quello con l’orgia alla Michael Ninn! Lo stitico regista sarà forse Stan che ha deciso di trasferirsi nell’odiata America? Il Kubricchianus non lo sa. Ci pensa un po’ su, poi sbotta: “Lui o non lui, a me questo Malick piace, finisce pure in “ick”, somiglia a Stan!”
Lorenzo Velle
24 novembre, 2009 - 13:10
Gli abbracci spezzati
Dispiace dirlo, a rischio di passare per un insensibile spettatore di fronte alle passioni e ai moti dell'animo proposti dal nostro amato regista, ma stavolta Almodovar non mi ha convinto come nel suo precedente Volver. Questo succede quando egli gioca la carta della citazione e dell'autoreferenzialità, ma soprattutto quando spinge sul piede del discorso metacinematografico. Terreno periglioso, assai arduo da percorrere, tanto da risultare cerebrale e artefatto e rischiare di sminuire la bellezza di certe scelte stilistiche formali sempre eleganti e appropriate, in cui il rigore geometrico è evidente insieme all'esaltazione cromatica che ne ha sempre contraddistinto il lavoro per immagini. Eppure si avverte una certa cerebralità che rischia di apparire pretestuosa, fine a se stessa e gli stessi schemi di disvelamenteo, di agnizione e rivelazione di segreti insiti nel passato dei suoi protagonisti, questa volta appaiono particolarmente posticci, non così appropriati come altre volte. Almodovar ci ha spesso abituato alle narrazioni esplicative dei suoi protagonisti per comprendere ciò che sino a quel momento ci era stato abilmente suggerito, ma stavolta sembra quasi inutile, tanto da appesantire il discorso delle passioni, che solo lui ancora riesce a trasmetterci sul grande schermo. Quindi per fortuna che c'è Pedro, ma stavolta è necessario dire ciò che non sembra essere al posto giusto nel suo film ed evidenziare un passo falso della sua nuova cifra stilistica come già era era stato fatto da parte della critica per il precedente La mala educacion, in cui il discorso metafilmico era presente e le metafore o meglio le allegorie erano troppo marcate in un cinema che è sempre stato sopra le righe, ma con il giusto brio, tant'è che Tutto su mia madre o Parla con me sembravano aver trovato la giusta dose d'ingredienti, nonostante i rischi presi dallo stesso autore in certe scelte narrative. Stavolta si ha un senso di ripetizione, di autoriferimento a se stesso che potrebbe rischiare di farci rimpiangere il suo cinema che fu, ma non credo vi sia il rischio di smettere di amare l'autore che è adesso, solo questa volta il nostro grande amore per lui, almeno per me, non ha trovato quel calore provato in precedenza, nonostante la sua Musa Penelope, che ancora una volta lo aiuta ad intessere trame in cui lasciarsi avviluppare, tant'è che si confida ancora una volta nel futuro e come sempre si spera che anche altri registi siano in grado e possano sperare di compiere passi falsi di questo genere nel cinema contemporaneo.
Marco Capriata
24 novembre, 2009 - 17:19
Teatro alla Scala: Un “Requiem” molto…sotto tono
Teatro alla Scala: Un “Requiem” molto…sotto tono Teatro alla Scala di Milano, Venerdì 20 novembre 2009 “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi (1874) Direttore: Daniel Baremboin Solisti: Barbara Frittoli, Jonas Kauffman, Sonia Ganassi, Renè Pape Venerdì scorso, ospite di un gentile amico, ho potuto assistere alla terza esecuzione del Requiem verdiano diretto da Baremboin ma meglio avrei fatto, diciamolo sin da ora e senza offesa per il mio gentile amico, ad andare altrove. Il mio sconfinato amore per la superba musica di Verdi che potrebbe farmi perdere di credibilità mi induce a richiamare la circostanza oggettiva che vuole che la Messa di Verdi venga ritenuta orbis terrarumque un capolavoro straordinario e non a caso vi ci si sono cimentate negli anni e con onore bacchette storiche da Toscanini ad Abbado, da Muti a Karajan et similia nonché, chi prima e chi poi, tutti i più grandi cantanti del dopo-guerra con forse la sola eccezione della Callas. Capirete quindi che se la Messa da requiem di Verdi risulta noiosa e pure priva di anima ciò significa solo che, con tutto il sommo rispetto, il direttore di turno ne ha proprio sbagliato come dire l’approccio. Certo il cast vocale dei solisti ci ha messo del suo anche se ritengo che parte della colpa per il di gran lunga peggior Agnus dei da me mai udito (sia live che in disco) vada addebitato di chi adotta tempi e sonorità che si sposano proprio pochino proprio con la musica di quello che è stato probabilmente il più operista musicista italiano dell'ottocento e non...solo. Senza contare le vere e proprie manchevolezze in sede di concertazione voci, giacchè se vuoi che tutta la parte tenorile venga cantata a mezza-voce ed in piano tipo Schipa o anche solo Tagliavini non scritturi un tenore come Kauffman la cui principale caratteristica è quella di possedere una voce scura dai centri spinti e di cantare con accenti di tendenza eroicheggiante. Se viceversa decidi di sceglierlo (presumo) allora però lo fai cantare come è capace sennò viene fuori quell’ibridume grigiastro di stasera ed è un vero peccato giacchè, senza gridare al miracolo tenorile si tratta pur sempre di uno dei pochi tenori emergenti di un qualche spessore. Non ha neppure tanto senso soffocare con sonorità da orchestrazione adatte forse ad una Obrastowa degli anni d'oro una voce per natura piccolina e non troppo ricca di armonici come quella di Sonia Ganassi che non canta certo male ma solo che dalla terza fila in poi non si...sente quasi. Al basso invece chissà perchè era consentito, solo a lui, di cantare a piena voce con tanti saluti peraltro alla coesione timbrico-sonora nei pezzi di assieme con chi era costretto a sussurrare tipo Kauffman. Infine tengo per ultimo il lato dolente del quartetto ovvero il soprano. Scusate ma io non amo per nulla un soprano la cui voce appena sale di un filo e deve espandersi a piena voce comincia a ballare come una sirena della ambulanza lanciata a tutta birra verso l'incidente. Neppure poi si trattasse poi di una voce talmente grossa da risultare di difficile sostegno diaframmatico in forte, giacchè quanto al volume esibito in tale occasione siamo a livello di una Nannetta da Falstaff e senza contare la inerzia interpretativa assoluta al punto che si rischiava l'abbiocco al libera me domine ovvero di uno dei più strepitosi pezzi mai scritti per la voce di un soprano. Alla fine grandi applausi certo, ma quelli che hanno sentito altri e ben diversi Requiem che senza scomodare Karajan, Price e Pavarotti o anche solo in San Marco quello di Abbado con Caballé e Ramey, bastando anche quello di Chailly di qualche annetto fa in Auditorium san Gottardo cosa dovrebbero dire ? Fingere che vada tutto bene madamalamarchesa perchè la Scala è la Scala e la musica deve comunque guardare avanti e non bisogna avere nostalgie ? No, mi spiace, in Teatro non disturbo e non dico nulla, sto zitto e me ne esco, però potrò poi scrivere da appassionato la mia grande delusione e concludere con un W Verdi ?
Davide Steccanella
25 novembre, 2009 - 19:36
Velimir Chlebnikov, 47 poesie facili e una difficile. A cura di Paolo Nori
Paolo Nori aveva già scritto un libro su Chlebnikov, Pancetta, una sorta di viaggio\documentario su questo autore, in cui spiccava l'ammirazione del notro Paolo nei confronti del padre del futurismo russo. Per lui infatti Chlebnikov non è un campione, o il più grande poeta del Novecento, come sosteneva Jakobson. Chlebnikov è molto di più. Adesso esce per Quodlibet questa sorta di quaderno di traduzioni di 48 poesie. Poesie facili appunto, di una facilità che vuole mettere a tacere la tradizionale voce di “illegibilità” del poeta russo. Illegibile, difficile? Non a caso la raccolta si apre con un testo semplicissimo “poco, mi serve. \ una crosta di pane, \ un ditale di latte, \ e questo cielo \ e queste nuvole”, poesia facilissima, tanto facile quanto memorizzabile e leggibile. Si tratta di un legame veloce tra la semplice materia del mondo e il cosmo, come il numero 48, somma delle poesie difficili e di quella facile, “che è un numero importante nella scienza dei numeri di Chlebnikov, nei suoi calcoli per scoprire le leggi della storia”. La poesia difficile è una sola, ma il lettore non si faccia prendere dalla voglia di scoprire quale sia. Sono tutte difficili e facili, la poesia difficile non esiste o potrebbe essere qualsiasi della raccolta. Il padre del cubofuturismo, del cosmismo, di tutti quei movimenti che agitavano la russia prerevoluzionaria dà vita alle parole, come poco più avanti avrebbe fatto un suo allievo molto più noto come Majakovskij, con quell'arte di cui i russi sono stati grandi artefici: l'arte di riempire le parole con onomatopee ed immagini “Bobeòbi si cantavano le labbra\ Veeòmi si cantavano gli sguardi......\ Gsì gsì geéo si cantava la catena”. Parola-suono-immagine alla ricerca di qualche “correspondenza\ fuori della continuità”, mentre non si può tacere la grandezza del nostro traduttore e delle sue avvertenze sul tradurre: “quando poi è successo che di una parola non si trovasse traccia né nei dizionari contemporanei né in quelli antichi, [...] allora ho inventato”. Il traduttore può inventare perché il poeta ha inventato parole che si offrivano al lettore migliaia di mondi verbali possibili. Ho alternato parti delle poesie e parti della postfazione di Nori perché il lettore scelga da dove cominciare, nella convinzione che il discorso del nostro Paolo non é solo una spiegazione, ma un'invito, forse il più seducente che abbia mai letto, alla conoscenza di questo poeta chiamato Chlebnikov che, ripeto, non è solo il poeta del futuro, come diceva Ripellino, neppure il Lenin del futurismo russo, come sostenteva ancora Markov, quel poeta chiamato Chlebnikov che per Nori è sempre e comunque molto di più. Velimir Chlebnikov, 47 poesie facili e una difficile, a cura di Paolo Nori, Quodlibet 2009 Prezzo in Euro 9.50
Luciano Mazziotta
28 novembre, 2009 - 15:47
(500) giorni insieme
500 giorni insieme è un film dell’orrore. Erroneamente viene pubblicizzato come commedia romantica. Un film in cui il protagonista viene massacrato da un mostro privo di sentimenti umani non è una commedia romantica. La protagonista si chiama Sole (Summer nell’originale, nomen woman) ed è interpretata da Zooey Deschanel (Yesman, Guida galattica per autostoppisti). È un personaggio paragonabile solo a Freddy Krueger, Hellraiser o al clown di It. “Questa è una storia di un lui è una lei”, spiega la voce narrante. E avverte: “Non è una storia d’amore”. Lui è l’attore Joseph Gordon Levitt, un passato cinematografico da enfant prodige, appariva anche in un altro classico del genere: Halloween 20 anni dopo. Si chiama Tom ed è un giovane che crede nel grande amore nonostante sia drammaticamente privo di spalle e di mestiere faccia lo scrittore di biglietti d’auguri. Prima ancora in epigrafe si precisava che “questa storia non contiene riferimenti a fatti e persone realmente esistenti. Soprattutto a te, Jenny Backman. Stronza”. Sì, perché la Lei in questione appartiene proprio a questa particolare specie di giovane donna. Lui perde la testa, si innamora senza rimedio. Lei lo illude giocando con lui al parco, all’Ikea e sotto la doccia. Gli fa vivere giorni d’estate, come promette il nome. Sul più bello lo molla. Seguono inenarrabili crudeltà ai danni del povero Tom. Invano lo spettatore aspetta la rivalsa, si augura che prima o poi il nostro dia una testata all’incantevole viso di Lei all’ennesimo “tra di noi non c’è niente” o “non voglio impegnarmi”. E invece niente. Tom si strugge. Nella migliore tradizione dell’horror movie americano il finale lascia aperta la porta a un sequel. Il nostro eroe incontra un’altra splendida ragazza. Questa volta si chiama Autumn (Luna, per lo spettatore italiano). Ci si aspetta che a breve esca Ancora 500 giorni insieme: Tom si fa distruggere da un’altra stagione della vita.
Antonio Sgobba
28 novembre, 2009 - 19:16
«Calpestare l’oblio», Antologia on-line di poesie contro il berlusconismo
Antologia significa -e ci soccorre l'etimologia- "fiori migliori". Davvero non sappiamo se le poesie raccolte in questa "antologia della ribellione" siano degne del florilegio, quel che è certo è che i poeti che vi partecipano sono veri e propri “campioni” della democrazia. E di nuovo ci soccorre l'etimologia: da "campo", nel senso di "arena", agone in questo caso politico o, meglio, culturale. Già, perché questa “antologia”, che gira sull’on line da qualche giorno, mette insieme trenta poeti più o meno noti, della vecchia e della nuova generazione, che scrivono versi per protesta: contro la minaccia incostituzionale di Berlusconi, per difendere il valore della resistenza e della memoria. Incredibile ma vero, nell'abituale indifferenza italica, l’anacronismo commovente del “manifesto dei poeti” raccoglie consensi e adesioni. L'idea è venuta a Davide Nota, poeta di ventotto anni (benché qualcuno dicesse impossibile esser poeti prima dei sessanta) che ha cominciato a telefonare ai più anziani: Roberto Roversi, Gianni D’Elia, Maurizio Cucchi e Franco Buffoni. Protagonisti di questa antologia «Calpestare l’oblio» sono i poeti della nuova generazione, nati negli anni ’70 ed ’80, che compongono per due terzi la raccolta: Flavio Santi, Massimo Gezzi, Marco Giovenale, Enrico Piergallini, Luigi Socci, Martino Baldi, Matteo Zattoni. Nomi forse ignoti al grande pubblico ma familiari a chiunque s'interessi di critica letteraria contemporanea. Certamente tra questi non figurano i giornalisti, che dipingono autori d'indiscusso valore come una “corazzata Potëmkin” (by Il Giornale) di vecchi ed “oscuri” (by Libero) poeti nostalgici del ’68 e carichi di “odio” nei confronti di Silvio Berlusconi (by Il Foglio). Come a dire: mala tempora currunt, e il pensiero corre all'officina di Pasolini e Roversi. Non sarebbe inopportuno in questa sede valutare anche il contenuto della raccolta, la qualità intrinseca dei testi, per non limitarsi alla sola -benché sorprendente- iniziativa politica. Non si può tacere l’uso talvolta strumentale della comparazione con il ventennio fascista, che semina facili slogan e rimandi a una guerra civile che si vorrebbe riattualizzare: «[…] Vizio di una cittadinanza, qui. Vedi e muori, muori sempre nella stessa cosa». Molti dei componimenti, invece dell’attualità, si concentra sul passato partigiano (Marzabotto, Sant’Anna) con qualche retorica di troppo: «e so, / che la fame uccide / e la libertà deve insegnare / come uccidere la fame». Ottime soluzioni, scevre d’ogni retorica, s’individuano nei versi di Maurizio Cucchi e Alba Donati: «Il lupo avrebbe addirittura mangiato / la nonna e la bambina intere / per salvaguardale da altri (più potenti ) nemici./ Il lupo era diventato, a forza di raccontarlo, di casa./ Il male, là fuori, cambiava nome, / ma conservava stretta la sua location». Ecco allora che la cultura diventa gesto politico, con esso fondendosi. Il partito-cultura si muove, benché minoritario, a risvegliare coscienze intorpidite da quindici anni di cartoni animati e talk show, perché il dominio della maggioranza -diceva quel tale- è come un'anestesia. Matteo Zola
Matteo Zola
30 novembre, 2009 - 11:51
La vita della discarica
La vita della discarica Ora di pranzo, anzi primo pomeriggio, un panino veloce consumato al bancone di un bar, il televisore trasmette il tg di rete vattelaapesca. La mia attenzione si attiva e viene richiamata da una frase strana: "....gestiremo il post-mortem della discarica in maniera sicura, per evitare che il percolato..etc etc etc". Trattasi di servizio su discarica chiusa ma inquinante, un riottoso comitato di cittadini protesta e un goffo politico risponde in maniera poco convincente. Film già visto. Il post mortem della discarica. Il post mortem della discarica. Mi ripeto. Il post mortem della discarica? Mi chiedo. Esco dal piccolo bar, col gusto del caffè in bocca e continuo a pensare. Povera discarica, una tanto brava discarica.... Pace all'anima sua. Ei fu. Siccome stracolma di monnezza, dato il mortal olezzo stette la carcassa abbandonata.... Ma non son poeta, il Manzoni l'ho studiato troppo tempo fa e in testa mi si forma un turbinio di immagini. Che le discariche avessero una vita è , onestamente, un particolare che mi era sfuggito. Ma pare sia proprio così. L'insieme dei rifiuti, delle cose che gettiamo, di ciò che scartiamo perché considerato indegno di appartenerci, si riunisce in un organismo che diventa vivente. E poi eterno. Infatti respira e il suo miasma vola lontano per chilometri, la linfa vitale inizia a circolare nei suoi strati e scende sempre più in basso nel profondo della terra che l'accoglie. Nasce e subito inizia a crescere come un cucciolo iper nutrito che diventerà obeso oltre ogni limite. Soprattuto acquisisce il carattere dell'eternità e dell'inamovibilità. Resterà li per sempre, non un diamante, una discarica è per sempre! Donne facciamocene una ragione. E come per tutti gli esseri viventi la vita vissuta sarà nulla rispetto all'eternità che aspetta l'insieme dei nostri scarti. Non avevo mai pensato al cassonetto come rampa di lancio per il futuro delle mie scorie. Le discariche hanno un post mortem dunque, a me resta solo che differenziare e cercare di consumare, in preda a un vero consumismo...nel senso letterale del termine, del consumare, utilizzare finché non è proprio da buttare, liso, qualsiasi cosa sia. L'eterno, caro il mio calzino vecchio, te lo devi guadagnare!. Nel mio paesello c'era una discarica e c'è ancora, ma negli anni ottanta era a cielo aperto ed in riva al mare, oggi non più, per fortuna. I giovani maschi ci andavano nottetempo per essere accarezzati dal brivido del rischio a sfidare enormi ratti, grandi come castori canadesi. I ratti, molto infastiditi, di solito avevano la meglio e i giovani maschi fuggivano,tuttavia molto soddisfatti, a bordo di 127 Fiat, ciottolanti e rugginose. Ora è una duna enorme, ricoperta dalla sabbia che il vento di mare ci sospinge continuamente e colorata da chiazze d'erba e arbusti bassi. Quasi un luogo ameno. Qualche bagnante in estate, nuotando alle sue pendici, si chiederà quale prodigio della natura abbia formato questa grande duna che svetta, sola, in un panorama già fortemente turbato. Un miracolo della natura penserà. In un certo senso lo è, pace all'anima sua.
Francesca Ferrari
30 novembre, 2009 - 21:35
Carmen in CD: qualche consiglio prima della…Prima
In vista della imminente inaugurazione scaligera volevo dare qualche suggerimento per un previo (o successivo) ascolto della popolare opera che, come noto, narra del tragico amore del soldato Don Josè per la gitana Carmen e che si conclude con il più brutale, e per certi aspetti più sensuale, omicidio per gelosia della storia dell’opera. Georges Bizet concepì il suo capolavoro nel 1875 per un piccolo Teatro con una piccola orchestra dando largo spazio ai recitativi parlati secondo l’alquanto sorvegliato gusto francese anche se la successiva tradizione esecutiva del novecento ha trasformato Carmen in una sorta di grande dramma pseudo-verista. La sensazionale Overture che riprende anche il celebre tema del Toreador è finita su molte suonerie dei cellulari e la Habanera di entrata della protagonista ha fatto da colonna sonora persino ad una pubblicità di detersivi mentre il cinema con Rosi si è impossessato della Carmen di Bizet esattamente come anni prima la rossa Rita Hayworth si era impossessata degli amori liberi di questa eroina. Punto di arrivo di ogni mezzo-soprano che si rispetti (la tessitura vocale di Carmen è ibrida giacchè insiste in più punti sulla zona centro-grave) il ruolo della protagonista è stato interpretato dalle più importanti cantanti del secolo cosiccome i due personaggi maschili antagonisti di Don Josè e di Escamillo sono stati appannaggio dei rispettivamente più celebrati tenori spinti e baritoni del nostro tempo. Nonostante tanta messe di fortuna, sia discografica che teatrale, ancora oggi sono due le edizioni consigliabili di Carmen ed entrambe, in singolare coincidenza, uscite sul mercato nel medesimo anno ovvero nel lontano 1963, ed entrambe, altra singolare coincidenza, con un soprano, anziché l’usuale mezzo-soprano, nel ruolo della protagonista. La celebre edizione RCA diretta da Herbert Von Karajan è un trionfo di colori sgargianti e sensuali essendo stata concepita per un quartetto di solisti dalla voce ricca e voluttuosa, in particolar modo nel duo principale formato dal soprano verdiano Leontyne Price (idolo incontrastato del Met di NY) e dal tenore eroico Franco Corelli cui si aggiunge una sensazionale giovane Mirella Freni nel ruolo di Micaela. La coeva edizione Emi diretta dal francese George Pretre, viceversa, appare il suo esatto contrario, in quanto molto più fredda e cerebrale, ma offre l’occasione per ascoltare in disco l’ultima grande creazione di Maria Callas la quale, senza averla mai interpretata in Teatro, sviscera, dal genio musicale quale era, in maniera una volta di più insuperabile, le tante e diverse sollecitazioni di Carmen che cessa di colpo di apparire la solita femmina verace dai facili costumi. Il resto del cast, va detto, è senza infamia e senza lode, ma la Carmen di Maria Callas ancora oggi mette i brividi all’ ascoltatore di tutte le età sia quando intona con accento disincantato e presago la seduttiva Seguidilla sia quando si inabissa in quel suo colore intubato, cupo e brunito della sua celebre voce nella straziante scena delle carte. Di rilievo anche il terzo e più “moderno” contributo discografico di Claudio Abbado che fissa nella edizione DG del 1977 la sua celebre edizione “mignon” che fece faville anche ad Edinburgo, con il mezzo-soprano spagnolo tutto stile Teresa Berganza e quello che a mio parere è stato il miglior Don Josè del dopoguerra, ovvero Placido Domingo, che io ebbi la fortuna di vedere in scena nella controversa inaugurazione scaligera del 1984 con la regia di Faggioni e che vedeva nel ruolo protagonista una ancora interessante, seppure vocalmente un tantino usurata, Shirley Verrett che pure era stata una grande Carmen negli anni d’oro. Per completezza oltre alle citate vanno ricordate, oltre alle “nostrane” Giulietta Simionato e Fiorenza Cossotto che rispettivamente negli anni cinquanta e settanta si distinsero alquanto nell’abusato ruolo di Carmen, anche i due mezzo Grace Bumbry e Elena Obratsowa, talentuosa russa da me ascoltata anni fa a Genova e protagonista di una interessante edizione diretta dal geniale Kleiber. Negli ultimi anni invece è subentrata, nella composizione dei cast, una certa quale tendenza a privilegiare l’aspetto fisico su quello squisitamente vocale, anche per le comprensibili esigenze commerciali di realizzare in contemporanea l’ennesimo DVD video, ragion per cui, volendo fornire qualche consiglio di solo ascolto, prima della prima, mi fermo qui.
Davide Steccanella
4 dicembre, 2009 - 11:38
7 dicembre Prima Scala: 15 "fiaschi" celebri a Teatro
1) Scala 1964: Traviata di Verdi (regia di Zeffirelli) direttore H.Von Karajan: Violetta era stata la grande Callas nel celeberrimo spettacolo di Visconti del 1955 e quella sera ci prova la emergente Mirella Freni. Dopo l’aria “ah forse è lui !” eseguita in modo corretto e nulla più, la cantante modenese affronta, prima della cabaletta di bravura “Sempre libera” dove rivelerà agilità un tantino approssimative, i due difficili Re bemolle del "gioir" e la nota esce un tantino stiracchiata (in poche parole quasi “stecca”). Fischi e buu al suo indirizzo e la stizzita si presenta mani sui fianchi a prendersi l’insuccesso…passerano parecchi anni prima che la Scala si decida di ripresentare La Traviata !!! 2) Scala 1970: I Vespri siciliani di Verdi (Renata Scotto): La allora superba Renata Scotto (futura idola del Metropolitan di NY) rilascia una intervista invero poco “gentile” nei confronti di Maria Callas invitata dal Teatro a presenziare alla sua prima. Una nota alquanto lacerata al termine del secondo duetto con Arrigo ed una raffazzonata esecuzione del difficilissimo bolero del IV° atto e la frittata è fatta. Al termine della esecuzione vengono lanciati in scena persino dei rapanelli. Il rapporto di Renata Scotto con la Scala si esaurirà praticamente qui. 3) Scala 1982: Anna Bolena di Donizetti (Montserrat Caballé): Dopo messe di trionfi Montserrat Caballé viene officiata della ripresa del mitico spettacolo della Callas del 1957 con la regia di Visconti ma la sera della prima si becca un malanno improvviso e così salta tutto con la gente assiepata da ore nel Teatro giacchè non c’è verso di fare entrare in scena la annunciata (all’ultimo..) sostituta. Il tormentone continua per una settimana (inteviste al TG etc.) finchè dopo ulteriori rinvii va in scena la prevista quarta recita in un clima incandescente. Una non all’altezza esecuzione della prima cabaletta sembra superata dal secondo atto con tanto di Re bemolle in chiusa e quindi la Caballé, ancora non del tutto rimessa, si appresta alla grande scena finale. Giunta al do acuto del recitativo l’altare è infiorato, la spagnola emette un urlo lacerante e viene giù il Teatro (le gridano di tutto …), sembra riprendersi con il suo magico al dolce guidami ma poi ricrolla miseramente nel finale Coppia iniqua. Al termine tirano giù la serranda di ferro e la Caballé fugge e verrà sostituita dalla giovanissima Gasdia. Non verrà più alla Scala se non d’urgenza 5 anni dopo per sostituire, strapagata, la Marton in Salomè e sarà memorabile. 4) Scala 1983: Lucia di Lammermoor di Donizetti (Pavarotti): Dopo il trionfo di Luciana Serra nel title-role in una serata che sembrava notevole, Pavarotti, fino a quel momento impeccabile Edgardo, scivola nel larghetto finale "bell’alma innamorata" mostrando affaticamento negli acuti. Lazzi, fischi e scandalo e tutte le TV a parlare del fiasco del Lucianone nazionale. 5) Scala 1984: I Lombardi alla 1° crociata di Verdi (Dimitrova): Ghena Dimitrova, fresca trionfatrice della Turandot zeffirelliana inaugurale, si getta impavida con grida invereconde sulla micidiale cabaletta "I vinti sorgono" ed il loggione la massacra. Dovrà fare alcuni successivi capolavori (Macbeth, Nabucco, Amneris, Cavalleria, Tosca) per riconquistare l'allora assai difficile pubblico scaligero 6) Scala 1989: Luisa Miller di Verdi (Katia Ricciarelli): Katia Ricciarelli (vocalmente in declino e mai molto amata in Scala) presenta uno dei suoi ruoli preferiti ed è un disastro. Al termine del traballante e calante duetto con il padre del 3° atto la veneta è costretta a mandare una maledizione al pubblico che non la lascia quasi finire e così Pippo Baudo prenderà a calci un loggionista nel backstage del dopo-serata. Non verrà più a Milano. 7) Roma 1955: Norma di Bellini (Maria Callas) In scena all'Opera di Roma la attesissima Norma di Maria Callas e per l'occasione nel parterre anche il Presidente Gronchi, biglietti esauriti da mesi, ma la "divina" fa le ore piccole ad una festa la notte prima ed il giorno dopo è senza voce. Dopo un 1° atto deludente non c'è verso di riprendere l'opera !!! Scene di delirio al momento di evacuare il Teatro gremito, e la Callas non canterà mai più a Roma e dovrà mandare una lettera di scuse al Presidente... 8) Scala 1976: Aida di Verdi (Carlo Bergonzi): Cast stellare radunato per la direzione del grande Shippers con tanto di Caballé e Bumbry nei ruoli di Aida e Amneris, ma proprio all'inizio il mitico Carlo Bergonzi ovvero uno dei più grandi tenori verdiani di sempre (anche se poco considerato in Scala), gratta e cala in due punti del Se quel guerrier io fossi e dall'alto gli gridano persino "stonato". Si riprenderà nel finale ma alla Scala non verrà mai più !!! 9) Scala 1984: Carmen di Bizet (Shirley Verrett) Per la inaugurazione ultima di Abbado viene chiamata nel title-role la locale beniamina Shirley Verrett già appaludita Lady Macbeth qualche anno prima, ma il mezzo-soprano è fuori forma e dopo le prime 2 arie deludenti, il pubblico la becca con qualcuno che grida "è una gran noia stasera" e lei conclude la recita in lacrime. Non verrà più !!! 10) Genova 1985: Traviata di Verdi (il tenore Furlan) Da tutta Europa gli appassionati si danno appuntamento al Carlo Felice per il ritorno italiano della grande Joan Sutherland nel ruolo di Violetta. Lei è ancora apprezzabile (soprattutto nel 1°atto) ma il tenore Furlan imposto dalla Stupenda è inascoltabile. Al termine del Parigi o cara il pubblico esplode, solo che si incavola la primadonna che pianta tutto e se ne va e rimane...lui !!! 11) Trieste 1985: Norma di Bellini (Katia Ricciarelli) Ci prova defilata Katia Ricciarelli a proprorre la sua inadeguata sacerdotessa, ma mal gliene incoglie. Fischi e lazzi durante la recita e la città listata di manifesti a lutto che commemorano la morte del capolavoro belliniano. Non la canterà più !!! 12) Pesaro 1987: Ermione di Rossini (Caballé) In condizioni vocali ormai precarie la Caballé accetta di debuttare in una delle più difficili opere rossiniane e proprio in mezzo agli intenditori del pesarese. Giunta alla grande scena "Essa corre al trionfo" la catalana non azzecca una terzina (o quartina) che è una, ed alla fine scoppia il finimondo ! La diretta TV viene sostituita all'istante con la registrata della prova generale, e chi non c'era legge sui giornali la recensione di una serata diversa da quella vista !! La Caballé non canterà più in un Teatro italiano importante. 13) Le "stecche" del Sig. Domingo in euro-radio Siamo nella grande Vienna e per l'anno 1978 va in scena un attesissimo Trovatore di Verdi con un cast stellare, sotto la magica bacchetta dell'imperatore Von Karajan. Milioni di ascoltatori si sintonizzano alla radio per la prevsita diretta dell'evento e si beano nel sentire il capolavoro verdiano eseguito da divi come la Cossotto, la Kabaiwanska, Cappuccilli e soprattutto il Manrico eroico del tenore del momento Placido Domingo. Arrivati alla attesa "pira" del terzo atto il tenore affronta gli acuti finali dell' o teco e quindi del ripetuto "all'armi". Sa il diavolo cosa succede, fatto gli è che alle orecchie incredule degli ascoltatori pervengono tre scatarrate immonde ed in evidente calo di intonazione, in breve fortunatamente coperte dal saggio Karajan che scatena l'orchestra. Come se niente fosse il pubblico in sala applaude il divo, chi è rimasto a casa pensa ad un guasto della trasmissione, la registrazione live circola in CD e dimostra che “steccazze” vere furono e delle più eclatanti, da Divo insomma... 14) La "sbornia" della Sig.ra Souliotis Salutata da molti come la nuova Callas (anche perchè greca e vocalmente dotata), questo soprano scalò in breve e giovanissima le vette della notorietà proponendosi come il nuovo soprano drammatico di agilità. Drammatico forse lo era, ma le agilità belcantiste non rientravano molto nella sua corda, e così una sera, mentre eseguiva la difficile Straniera di Bellini, riesumata magicamente dalla Caballé nel 1969, si ebbe modo di ascoltare una straordinaria versione “ubriaca” del grande finale di Alaide, le sirene vocali al posto degli acuti prescritti della straniera della Souliotis sono una specie di must per le serate divertenti dei melomani... Non si scherza con Bellini...(diceva la Callas) 15) La "fantasia" della Caballé Agli inizi degli anni '80 la Caballé decise che oramai era troppo venerata per studiare ancora gli spartiti e che aveva voglia di cimentarsi in tutto. Così a Nizza, Teatro ove tutto le era concesso, si cimentò pure nella parte buffa mezzo-sopranile di Rosina del Barbiere rossiniano, cantandolo in un modo tuto suo. Ma la cosa più spassosa fu quando ad un certo punto del secondo atto si scordò totalmente le parole del duetto con Bartolo, e quindi visto che si era fatto un imbarazzante silenzio in attesa delle sue battute, ella se ne uscì con un sensazionale "ah, che caldo che fa...che caldo, che caldo !" recitandolo pure stile Racine ed agitando l'ispanico ventaglio. Boato di risa e poi si riprese in allegria....
Davide Steccanella
7 dicembre, 2009 - 10:02