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Oggetto recensito:
"Povera spia", di Franco Mimmi
di: Yvonne Aversa




Il protagonista del romanzo, Riccardo, è un giornalista di scarse risorse, che lavora per una stranissima agenzia - AIP, Agenzia Il Palazzo - e che non sembra affatto avere la statura per fare la spia. A tal punto che scopre di essere una spia soltanto nella seconda metà del romanzo. E la scoperta è foriera di sviluppi imprevisti e imprevedibili per lo stesso Riccardo. Tutto pare filare sui binari d’un romanzo del tipo ‘noir’, sia pure in assenza di grandi colpi di scena, di spargimento di sangue, di inseguimenti e di azione portata al parossismo, ma arrivati alla fine è giocoforza riprendere in mano le tessere del mosaico che si è andato componendo con la lettura, e allora scopriamo che le tessere devono essere sistemate in modo diverso: non sul piano, in orizzontale, bensì nel senso della profondità, dello spessore. Riccardo, con sempre maggiore chiarezza, si pone non come motore della storia ma come il vero oggetto dell’indagine, e così scopriamo che una indicazione fondamentale di lettura già ci era stata fornita dalla dotta citazione del “Codice Atlantico” di Leonardo posta in apertura di libro: “Infralle cose grandi che infra noi si trovano, l’essere del nulla è grandissima”, citazione ripresa, con abile e sapiente struttura circolare, dalle ultimissime parole del romanzo.

A questo punto, Riccardo appare illuminato a giorno e non può più sfuggire all’analisi e all’interesse del lettore, catturato da questo personaggio che non agisce praticamente mai e si trova intrappolato in una rete dalla quale non può (non vuole?) districarsi. È come se di colpo ci trovassimo davanti a due romanzi in uno. Da una parte l’intrigo, il ‘noir’ che si svolge secondo un canone ben preciso; dall’altra e contemporaneamente il delinearsi d’un personaggio che è molto vicino ad altri personaggi che hanno popolato, numerosi, la letteratura italiana ed europea dagli inizi del ‘900 fino ad oggi. Voglio dire che l’inadeguatezza confessata e sottolineata, oltre che quotidianamente vissuta da Riccardo, lo affratella a personaggi quali gli “inetti sveviani”, i “vinti” di Verga, il Wilhelm Meister di Goethe, l’Ulrich de “L’uomo senza qualità” di Musil, il protagonista de “Gli indifferenti” di Moravia e, forse, sia pure con certa distanza, a quello de “La nausea” di Sartre. Riccardo si autodefinisce “senza talento e con scarsa volontà”; “senza la forza per reagire contro noi stessi”; e la domanda: “Ma in che mondo vivi?” postagli in più occasioni e da persone anche lontane tra loro costituisce il leit-motiv della sua intera vita, l’inevitabile e involontario punto di contatto tra tutti coloro che hanno rapporti con lui. Eppure, Riccardo dimostra una sensibilità e un senso di autocritica che pochi hanno, per quanto ciò lo conduca appunto alla quasi totale inattività. È lo sconfitto senza battaglia, è l’anti-eroe per eccellenza, è l’uomo-cittadino apparentemente integrato e, proprio per questo motivo, dis-integrato, deviante, “spaesato nella realtà”, che anche quando ce la mette tutta va a inciampare in una situazione più grande di lui. È un personaggio che si sente aggredito dalle cose fino ad arrivare al delirio di amare la sparizione-morte, specchio delle fobie di noi tutti eppure attrazione fatale, sopratutto nel convincimento che dopo di essa “nihil est”, anzi, “essa stessa è nulla”, per ritornare alle parole conclusive di un altro romanzo dello stesso autore, “Cavaliere di grazia”.

È un romanzo, questo, che ci risveglia echi di tante letture e tante altre ce ne ripropone. Così, per esempio, quando Riccardo ricorda “un barlume da un libro letto mille anni fa…un uomo…che si abbandona all’oceano…con gli occhi aperti, tra le scie fosforescenti di fantastici pesci guizzanti, nuotando con tutte le forze per impedire all’istinto di tornare a prevalere sulla volontà…” non possiamo non andare a rileggere per l’ennesima volta le ultime righe del “Martin Eden” di Jack London, libro che senza dubbio ha contribuito alla formazione di tanti di noi, che ha lasciato un solco profondo nella memoria e nella sensibilità di intere generazioni di lettori di tutto il mondo.

Dicevo prima che “Povera spia” è un libro intrigante e lo ribadisco. E non solo per il personaggio di Riccardo, bensì anche per la scelta stilistica che ci presenta, scelta originale e suggestiva che riconferma la pluralità dei piani di lettura e dei percorsi di indagine che possiamo intraprendere.

Il romanzo si presenta con una alternanza di scrittura in corsivo e in tondo: il corsivo è sempre alla prima persona e non viene mai concluso da un punto finale, resta aperto. È la scrittura che racconta il “dentro” del personaggio, è il discorso interiore, il pulsare discontinuo ma inarrestabile delle circonvoluzioni cerebrali di Riccardo che, coerentemente col suo modo di essere, non può non vuole non sa concludere nessuno dei suoi pensieri. La scrittura in tondo è sempre in terza persona, rappresenta il Riccardo visto da fuori, raccontato dal narratore, guardato da un occhio-obiettivo (inteso come aggettivo e sostantivo). Ecco allora che la prima frase è praticamente sempre al passato remoto ed è brevissima, lapidaria. Poi la descrizione si snoda al presente. È come se il primo gesto di Riccardo fosse congelato, rappreso in una immobilità e fissità lontana nel tempo che poi si stempera nel presente dell’azione immediata che pure non giunge alla continuità, visto che la tecnica si ripete identica lungo tutta la narrazione. È come se l’obiettivo di una cinepresa - l’occhio del narratore - facesse fatica a mettersi in movimento, a mettere a fuoco il presente, oppure se volesse comunicare allo spettatore-lettore la mancanza di coesione, ancora una volta la disgregazione del personaggio, pur nella sua più normale quotidianità, attraverso questo scarto di tempi verbali -passato/presente- che attrae immediatamente l’attenzione stupefatta e interrogativa del lettore. La frammentarietà è profondamente significativa d’una vita quasi ridotta a fotogrammi isolati.

Davvero intrigante, dunque, per una molteplicità di motivi, il romanzo è scritto con una scorrevolezza e una precisione linguistica notevoli, a riconferma della già ampiamente accreditata consapevolezza, da parte di Mimmi, d’una lingua italiana mai diluita in modi di dire modernizzanti e talvolta perfino grossolani che si vuole spesso far passare per linguaggio semplice e accessibile.

In conclusione, un romanzo dallo stile originale che si legge con grande piacere e lascia un deposito di riflessione davvero consistente. Che poi ci spinga ancora una volta, con decisione, a riflettere su noi stessi, sul nulla che ci circonda, sul fascino che esercitano il denaro e il potere, sulla sempre più fragile consistenza delle convinzioni, sul deserto che dilaga intorno a noi, non può che essere benvenuto, perché ci aiuta nella ricerca di un ‘senso’, di una direzione, di un cammino alternativo. Dentro ciascuno di noi, anche se molto dentro, pare ricordarci Mimmi, persiste un fondo di dignità e di coerenza con i valori più positivi, sebbene affiori con difficoltà e talvolta con esiti dirompenti.

Il romanzo, ne sono certa, può essere letto come una sorta di invito a non gettare la spugna ma a fondarci con lucidità sulla consapevolezza che quello che possiamo o dobbiamo fare si riferisce pur sempre al “qui ed ora”.





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