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LIBRI - SAGGISTICA

Il contadino poliglotta

L'uscita della traduzione di Lo Sciamano ci parla, con Stefano Dallari, è un buon pretesto per introdurre la figura di Riccardo Bertani, conoscitore di religioni e culture lontane e studioso dei flussi migratori di popoli e lingue. Tutto senza mai muoversi dai campi della pianura reggiana.


di Marco Buttafuoco

 


A Campegine, nella pianura reggiana, vive uno dei più singolari intellettuali che sia dato di incontrare. Si chiama Riccardo Bertani, ha ottantuno anni ed è, come dice la sua carta d’identità, un contadino. In realtà da decenni, nella sua densa solitudine di autodidatta visionario, si dedica ad intensi studi di glottologia e di culture popolari. I suoi occhi chiari guardano lontano, fino alle grandi tundre siberiane. Bertan capace di leggere un centinaio di lingue (il longobardo e l’etrusco fra le altre) è uno dei maggiori esperti, riconosciuto anche a livello accademico dei dialetti parlati e dalla letteratura epica dalle tante popolazioni più o meno nomadi che abitano quei vasti spazi: i Burlati, i Jugakiry, gli Jacuti.
 
Il suo ultimo lavoro pubblicato è proprio la traduzione di un poema epico il Maday Kara, trascritto nel 1979 da A.G Galkin e considerato una specie di Omero dell’Altai, nel senso che ha dato forma letteraria a versi tramandati per via orale da secoli. II tema è quello eterno della lotta fra il bene ed il male, della dialettica tra luce e tenebre. La storia ancestrale di un eroe che libera la sua gente dalla prepotenza di demoni oscuri. Un eroe che, come Odisseo e tanti altri personaggi delle mitologie, scende addirittura nel mondo degli inferi e poi sale al cielo.
 
II senso profondo della ricerca di Bertani è proprio qui. L’anziano contadino emiliano lavora da anni muovendosi dentro quello che si potrebbe chiamare "il sistema circolatorio della storia", a disegnare il percorso inquieto e spesso misterioso di correnti migratorie che portarono nei secoli intere popolazioni a trasferirsi in altre terre. Come gli Etruschi provenienti forse dalla lontana Cecenia, come cercherà di dimostrare il suo prossimo libro. Come Bruce Chatwin, Riccardo Bertani cerca di tracciare il fitto reticolo che le lingue e le storie hanno tracciato nel nostro globo (le vie dei canti di cui favoleggia la cultura degli aborigeni australiani). La differenza vera con lo scrittore inglese è che questo conoscitore di genti e di lingue, quest’uomo innamorato del nomadismo, non ha mai lasciato il suo piccolo borgo. Per la paura, dice, di rimanere deluso, che la realtà possa tradire il suo lungo sogno.
 
Chi ha parlato di Riccardo Bertani lo ha fatto spesso pensando ad un uomo stravagante ed eccentrico piuttosto che ad uno studioso vero. Le poche, fin troppo poche, pagine che introducono la traduzione del poema dicono altro. In esse Bertani da conto della visione del mondo che fu propria dello sciamanesimo siberiano delle origini, prima che questo pensiero religioso risentisse dell’influenza buddista. E lo sciamanesimo descritto da Bertani è qualcosa di ben lontano dalle banalità che certa paccottiglia di tipo new age ha tentato di spacciare ad un pubblico credulone. Si tratta invece di una riflessione aspra e profonda sulla dialettica fra infinito e finito, fra il nulla e l’essere, sulla precarietà del concetto di tempo (argomenti su cui dibatte da decenni la fisica teorica) e, in ultima analisi sulla non distinzione di vita e morte. Temi ardui e destabilizzanti, non certo una filosofia che offre consolazioni a buon mercato.
 
Bertani lamenta la scarsità delle fonti su questi temi, ma non per questo si esime dall'affrontarli. La sua ricerca si nutre di strumenti linguistici raffinati e di riflessioni filosofiche importanti. In realtà, dovendo inquadrare e riassumere in qualche maniera la sua elaborata vicenda intellettuale, sento di poter dire che Riccardo Bertani è, in fondo, un poeta, (non a caso scrive anche fiabe) consapevole che né la scienza, né le religioni rivelate, né i grandi sistemi filosofici diano spiegazioni convincenti della complessità della vicenda umana. Si può non convenire con la sua visione, ma non si può negare che la descrizione più suggestiva del tempo è forse quella di di S. Agostino, quando ammetteva di non saperlo spiegare. E che la vertigine dell’infinito, della contiguità del tutto e del niente è stato magnificamente reso dal solitario cantore di Recanati più che dalla complessa letteratura della fisica.
  
Non daremo quindi soli od ombrelli, a questo suo ultimo bel libro, curato con Stefano Dallari
Lo immergeremo, citando una leggenda da lui evocata nella sua prefazione, nella luce di una mitica terra sognata dagli antichi sciamani, il luogo di ritrovo delle anime defunte. Una landa “dove regnava la buia notte polare colma di brillanti stelle, con il bagliore dell’aurora boreale che si rifletteva sui ghiacciai perenni. Un tripudio di ombre e luci…”



Tags: A.G Galkin, contadino, maday Kara, Marco Buttafuoco, Riccardo Bertani, traduzione,
28 Dicembre 2011

Oggetto recensito:

Riccardo Bertani e Stefano Dallari, Lo sciamano ci parla, VERDE CHIARO EDIZIONI, p 173, 18 euro

 

giudizio:



9
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