Ipnotizzati dalla tecnologia e perennemente supini su letti e giacigli. Sono i figli di oggi, così incomprensibili per i padri: sono Gli sdraiati, appunto, secondo Michele Serra. Che affronta uno dei temi più affascinanti e più difficili nell'unico modo possibile: partendo da se stesso
di Giuseppe De Marco
Padri e figli. Scusate se è poco. Un argomento nella top five delle principali questioni che ambasciano l’umanità, probabilmente a far data dalla prima alba in cui un giovane primitivo ha trovato sbarrato l’ingresso della caverna di ritorno da una notte brava a caccia di mammuth. Una classifica, beninteso, che vede la presenza di diverse altre quisquilie tipo l’amore, la vita, la morte, il potere.
Ma il tema generazionale è forse il solo capace di racchiuderle tutte in una botta sola. Si perché a parlare del rapporto genitori/figli (doverosa precisazione: il libro di Serra è declinato, volutamente, al maschile. Non sono “genitori” e “prole” in senso lato ma proprio “padre” e “figlio”. Nella consapevolezza, fondata quanto forse indimostrabile, che il rapporto intergenerazionale tra i maschi di una famiglia sia cosa solo apparentemente assimilabile a quello tra gli appartenenti dell’altro sesso. Il tutto, per carità, sia detto senza alcuna connotazione dispregiativa di genere, ché anzi molte delle angosciose debolezze con cui si scontrano i maschi quotidiani sono totalmente sconosciute all’altro sesso. E viceversa s’intende).
A parlar di padri e figli, si diceva, si finisce per mettere insieme una cosmologia infinita di relazioni, che abbraccia per intero lo spettro emozionale dell’umanità: l’amore, certo, ma anche la competizione, la sopraffazione, il conflitto, la sopravvivenza della specie. E a questo punto due sono le cose: o uno si arrende e torna a leggere il giornale, lasciando a scannarsi sull’argomento sociologi e antropologi di varia natura, oppure si cimenta col tema partendo dal basso, ma proprio basso basso. Diciamo da sé.
È quello che ha fatto Michele Serra (presentazioni inutili), che parla di “padri” ma in realtà il padre è uno, lui stesso. Come pure i “figli” altri non sono che il suo primogenito. Colto nel pieno dei suoi enigmatici, solipsistici, sciatti ed osceni diciotto anni. Un’età che al giorno d’oggi trasforma gli esseri viventi, almeno stando al resoconto a tinte forti di Serra, in marziani perennemente supini, ontologicamente “sdraiati” su divani e giacigli che finiscono per essere un prolungamento delle loro membra, almeno quanto la generazione che li ha preceduti era invece rigorosamente all’inpiedi.
Serra non si sbilancia a definire il cambiamento anatomico come una involuzione negativa, limitandosi a prenderne atto come di una forma di mutazione della specie. Ma è fin troppo evidente come ai suoi occhi l’atteggiamento di non belligeranza nei confronti della vita che passa sopra i loro corpi, non renda gli adolescenti moderni particolarmente degni di considerazione o stima. Né si può dargli torto del resto. Tecnologicamente iperconnessi eppure a conti fatti drammaticamente soli, i “figli” appaiono totalmente indifferenti al mondo se non per quel poco che ne ricevono in termini di stimolazioni multimediali.
Un muro contro il quale Serra-papà non riesce ad opporre se non una blanda resistenza di facciata, amaramente consapevole di non avere le risorse per imporre un codice di condotta, del quale forse non riconosce neanche piena validità. Questa ignavia – sorda, placida ma al tempo stesso brutale nella sua sfrontatezza – è qualcosa di più di un cruccio per il povero Serra. È un’amarezza profonda, esistenziale, che non riesce a scalfire più di tanto la sua tradizionale ironia con la quale pure a volte si sforza di colorare un contesto assai poco ilare. È la constatazione di una sconfitta, quella dei “Vecchi” contro i “Giovani”. Personale anzitutto, ma anche generazionale. Per non dire addirittura politica.
«Nella furibonda disputa del mio parlamento interiore, dai banchi della destra si levano accuse cocenti contro l’imbelle rinuncia della sinistra ad esercitare l’autorità. Ma anche quando sospetto che la destra abbia ragione, me ne rimango ostinatamente seduti sui banchi della sinistra. E lo sai perché? Perché non posso fare altro».
E non è tanto che Serra la butti in politica (sebbene sì, in fondo è proprio quello che fa) quanto piuttosto che le categorie della politica entro le quali l’autore è abituato a muoversi forniscono un ipotetico ancoraggio ad un ideale più alto. Come se lasciare il campo di battaglia per volteggiare tra le nuvole appesi ad un palloncino possa evitare una disfatta (e una caduta) anche peggiore.
E si ritorna in fondo alla questione già molto dibattuta (se ne è parlato, tra l’altro, in Contro i papà di Antonio Polito) della presunta mollezza dei padri moderni. Spogliati da tempo della loro autorità e sempre più intimoriti dalla fugacità e precarietà del vivere moderno, i poveri papini di oggi brancolano senza meta apparente tra un passato tutto-regole e un presente tutto-boh.
Incapaci di prendere posizione sull’uno o l’altro versante e perciò condannati a farsi spettatori passivi di una pedagogia derubricata a mero accidente.
«Io sono un borghese di sinistra», ammette l’autore. «Da nessuna parte è scritto che anche tu debba diventare un borghese di sinistra». E il punto è tutto qui. Piaccia o no, quello che furono e sono i padri non è mai quello che sono e saranno i figli. Facciamocene una ragione.
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Michele Serra, Gli sdraiati, Feltrinelli 2013, pag 112, euro 12
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