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SPORT

L'Internazionale

"E' una squadra fatta solo di stranieri": una critica che ignora non solo il presente (la società multirazziale in cui viviamo) ma anche il passato. Perché nel 1908 i soci del Milan che decisero la scissione, quel nome non lo scelsero a caso


di Pippo Russo

 


L’ultima risorsa dell’invettiva anti-interista è l’accusa di non italianità. A poco più di una settimana dalla tripletta (Campionato, Coppa Italia e Champions League, impresa che a lungo rimarrà irripetibile per ogni altro club italiano), il solo argomento polemico rimasto per smontare i successi dell’Inter è ormai quello di un'eccessiva esterofilia. A vincere è stata "una squadra non rappresentativa di questo paese", e dunque le sue vittorie perdono valore se bisogna spenderle come medaglie da esibire nelle dispute fra tifosi da bar sport. Che già a esporlo tutto intero, il ragionamento vien fuori patetico. E infatti l’argomento di polemica viene soltanto accennato, e lanciato lì come un petardo, che fa il botto subito ma poi non si lascia dietro nemmeno un filo di fumo.
 
Quella che al club capitanato da Massimo Moratti viene rimproverata è una condizione vissuta sin dai giorni in cui il pronunciamento della sentenza Bosman (15 dicembre 1995) abbatté ogni limite alla circolazione dei professionisti comunitari dello sport all’interno dello spazio Ue. Da quel giorno il tesseramento di stranieri (ma il distinguo non esiste più, né per lo sport né per la legge ordinaria, dato che ormai il vero discrimine della membership è quello fra comunitario e extracomunitario) è diventato opzione non arginabile. Dunque, ciò che al club nerazzurro viene rimproverata è una mera scelta d’indirizzo in materia di reclutamento sportivo attraverso il mercato. Tutto qui?
 
Dice: ma messa così la questione è semplificata, e si finisce per non tenere conto degli aspetti romantici che al calcio sono da sempre legati. Rispondiamo che non ci riesce proprio di capire quale sia il nesso fra l’elemento romantico del gioco del calcio e il principio di nazionalità del calcio stesso. D’accordo, lo sport del XX secolo (specie riguardo le discipline di squadra) si è strutturato attorno alla configurazione dei confini nazionali, e dunque dei confronti fra rappresentative (nazionali e di club) degli stati territoriali. Ma lo sport entrato nell’epoca della globalizzazione risente del tempo nuovo, ed egregiamente si adatta.
 
Viviamo l’era della post-nazionalità in tutti i campi del vivere associato; lo sport si adegua, e anzi in molti casi è un’avanguardia di questi processi. Tanto più che essi vengono a manifestarsi anche in quei settori  in cui il principio di nazionalità andrebbe osservato più rigidamente. Ci riferiamo alla sfera delle rappresentative nazionali, dove la selezione del talento dovrebbe tassativamente riguardare gli atleti indigeni; e invece ormai è una corsa al reclutamento e alla naturalizzazione del talento straniero. E dunque, se le nazionali e le relative federazioni danno il pessimo esempio su questo fronte, perché mai bisognerebbe pretendere dai club i comportamenti virtuosi e la salvaguardia del corredo romantico?
 
Dirigenti_Inter_1912.jpgVero, nell’Inter scesa in campo a Madrid non c’era un giocatore italiano. Anzi, per essere precisi uno c’era: Materazzi, entrato al 91’ in sostituzione del protagonista assoluto della gara, Diego Milito. E per tutta la stagione conclusa lo scorso 22 maggio la presenza di atleti nativi del nostro paese è stata marginale. E dunque? Non è indispensabile essere tifosi nerazzurri (e infatti non lo siamo) per giudicare insulso l’argomento dell’eccessivo ricorso agli stranieri. Che suona un po’ come accusare qualcuno di versare troppo zucchero nel caffè, o di preferire il colore giallo al blu. 
 
Si tratta o no di opzioni, di libere scelte fra alternative? Questo ha fatto l’Inter, durante i quindici anni trascorsi dopo la sentenza Bosman; dei quali soltanto gli ultimi quattro sono stati caratterizzati da successi. Nei precedenti l’Inter perdeva nonostante l’ampia presenza di stranieri, e questo dato di fatto sapeva di sberleffo ulteriore. Come se fosse perdere due volte. Sicché, da qualunque parte la si giri, il tesserare e lo schierare un numero elevato di calciatori non indigeni sarebbe una colpa.
 
E invece l’Inter è una squadra che ha davvero saputo sviluppare uno spirito cosmopolita, una vocazione inscritta già nella sua storia e nello stesso nome, abbreviazione dell'originario Football Club Internazionale. La squadra venne fondata nel 1908 da alcuni ex soci del Milan Football and Cricket Club, che proprio per il divieto di quest'ultimo di arruolare altri giocatori stranieri decisero per la scissione. "Si chiamerà Internazionale perchè noi siamo fratelli del mondo", dichiarò Giorgio Mussani, pittore e fondatore della società.
    
E se già un secolo fa esisteva chi la vedeva così, ostinarsi a polemizzare oggi contro questo stato delle cose non è nemmeno esercizio sciocco. È pura coglioneria. Chi vuole continuare a baloccarsi con quest’esercizio, faccia pure. Alla lunga si sfiaterà come una gazzosa stappata e dimenticata sul muretto.



Tags: calcio, campionato, Champions League, Coppa Italia, extracomunitari, globalizzazione, inter, Massimo Moratti, pallone, Pippo Russo, post-nazionalità, sport, squadra, stranieri,
03 Giugno 2010

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