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FILM

Il western che fa harakiri

Tra scene di macelleria e combattimenti vari, Miike Takashi riesce ad infilzare qua e là qualche citazione al grande cinema asiatico e americano. Ma il suo 13 assassini è una pellicola tagliuzzata con la spada, che sacrifica all'estetica (e al citazionismo) ogni significato più profondo


di Marinella Doriguzzi Bozzo


“Voi samurai siete così presuntuosi” motteggia l’ammazzaconigli del gruppo: uno trovato nei boschi, senza tradizioni e senza onore, intento solo a roteare la fionda per colpire la selvaggina e soddisfare così il bisogno primario del cibo, sospirando per la bella amante, e fregandosene delle gerarchie e delle regole. E, in fatto di presunzione, anche il regista non scherza, visto che si propone di modernizzare il genere nippo western, teatralizzandolo fino all’estremo limite, e mettendoci, per farlo, quasi due ore e mezza. Partendo da un harakiri di protesta e finendo per rammentarci che anche i poteri assoluti degli shogun si reggono sul consenso del popolo.
 
Siamo ovviamente nello stesso Giappone visitato a suo tempo da Eiichi Kudo e da Akira Kurosawa: il giovane, folle e sadico Naritzugo è il fratellastro di colui che detiene tutti i poteri e che lo favorisce nonostante i suoi delitti gratuiti, da innamorato della morte altrui. Nel contempo, la nobile tradizione dei samurai, senza macchia e senza paura, è sulla strada dell’illanguidimento, sia perchè i costumi dirazzano, sia perchè l’attività s’è fatta precaria. Finalmente, l’occasione del riscatto suona con l’incarico al coraggioso -e, si direbbe, attempato- Shimada di uccidere il tiranno sempre biancovestito. 
 
Per sperare di riuscirci, deve assoldare altri nostalgici inattivi come lui, senza che si sprechi troppo tempo sul conflitto di interessi tra il bisogno di recuperare l’onore degli ordinamenti, una più moderna giustizia , e l’obbedienza che i samurai devono comunque alla gerarchia. Perchè il richiamo della katana da risfoderare è irresistibile, tanto da ripercorrere tutte le strade già battute in passato non soltanto nel Sol levante, ma anche negli Usa, da I magnifici sette (1960) di Sturges a Il mucchio selvaggio (1969) di Peckinpah , solo per citare i primi due titoli che vengono in mente.
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Niente di male in questo senso, anche i remake possono dire qualche cosa di originale; peccato che questo sia un film due volte tagliato a metà. Nel senso che la prima parte di preparazione è equivalente alla parte dedicata alla battaglia, senza che la caratterizzazione dei singoli appartenenti al manipolo dei tredici consenta la benchè minima divagazione. Tutto il film risulta in bilico su di un pericoloso crinale,prestandosi la banalità declamatoria dei dialoghi (ispirati più al linguaggio da anagrafe che non alla saggezza dell’Hagakure) sia ad una lettura seria, che ad una sboccata parodia di genere.
 
Fortunatamente il regista ci mette tutti i sentimenti, tanto nella scelta delle location, quanto nella minuziosa impostazione delle scene, nonchè nell’utilizzo di ogni possibile mezzo cinematografico -al netto di qualsiasi effetto speciale- per dare fiato a un film altrimenti non necessario.
 
Sì che, volendo stare al gioco frenando l’impazienza da lentezza e da déja vu, si possono apprezzare i magnifici bui degli interni e il respiro verde di boschi di una bellezza al limite del reale mentre gli avversari lentamente si avvicinano, splendidamente vestiti da viaggio o da cerimonia, fino al lungo ed eccezionale conflitto conclusivo. Che si svolge in un villaggio tramutato in una ingegneristica trappola di palizzate semoventi e di percorsi minati, dando finalmente sfogo alla macelleria di prammatica. Ma è grande l'impatto narrativo e visivo, a parziale riscatto di una pellicola tutta estroflessa, priva di retroscena come di risvolti psicologici, e mai in grado di suscitare la benchè minima suspence, appagando lo spettatore -e non sempre-solo dal punto di vista tecnico. Fatti salvi i fanatici del genere, che possono accontentarsi in funzione della lontananza nel tempo dei vari modelli originali.
 
Alla proiezione , dai commenti colti qua e là, non sembra che ce ne fossero molti, comunque; anzi, si sono perfino sentiti dei mormorii devoti rivolti alle buonanime del Kill Bill (2003) di Tarantino: quelle che esalando dalle bocche dei morenti quasi in forma di fumetto, davano il senso di un respiro ben diverso.



Tags: Marinella Doriguzzi Bozzo,
12 Luglio 2011

Oggetto recensito:

13 assassini, di Miike Takashi, Giappone 2010, 124 m

giudizio:



7.56
Media: 7.6 (11 voti)

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