E prostituta. Non tanto per soldi o per altri obiettivi materiali, ma per prendere distanza dal mondo degli adulti. François Ozon parte da Rimbaud ("Non si può essere seri a diciassette anni") e arriva a una riflessione su amore e sesso che va ben al di là delle chiacchiere sugli ultimi casi di cronaca
di Marinella Doriguzzi Bozzo
In Guerra e pace, il principe Andreij incontra Natasha, e le offre la più bella dichiarazione amorosa della letteratura: "Vi ho amata dal primo momento che vi ho vista. Posso sperare?". Non le chiede cioè una risposta, bensì il tempo di potersi pensare reciprocamente, in modo che il contatto diventi attesa, promessa, speranza, cristallizzazione di quei magmi affini su cui fondare l'amore, fenomeno chimico e mentale che quasi mai può verificarsi se il decorso della conoscenza e poi dell'intimità si riduce a occasione o a momento. Mutato il concetto di tempo, cambia anche quello di amore, che oggi rimane un'aspirazione nostalgica contraddetta o resa precaria dal tutto e subito della disinvoltura sessuale. Al punto da diventare, nel caso del film, non solo meccanicistica coazione a ripetere, ma addirittura mercimonio sublimato dall'assenza di una brama economica, annullamento di quell'io che potrebbe uscire da se stesso attraverso gli spiragli e le esaltazioni dello sperdimento sentimentale: nell'autocancellazione della soggettività partecipe si annida la paura consapevole dell'anelito a una emotività totalizzante non più raggiungibile.
Isabelle compie i suoi unici diciassette anni proprio d'estate, la più sospesa delle stagioni, quella che esalta, lusinga e svia, tra notti di luna e frinire di cicale: spente le candeline, si libera quasi chirurgicamente della verginità con un coetaneo che le è indifferente, in modo da poter guardare a sé come ad un'altra da sé. Questa spersonalizzazione anaffettiva e difensiva la porta a ritagliarsi una doppia vita di studentessa e di prostituta con il nome di Lea (quello della nonna). Il regista è bravo a suggerire, incontro dopo incontro, non tanto una degradazione, quanto un progetto di alienità che è sia presa di distanza dagli adulti che assunzione di un segreto potere di controllo: spazio di sperimentazione, di conoscenza e di rifugio da un contesto famigliare che nasconde disastri banali, infedeltà, amicizie tradite, patrigni esautorati, padri lontani e, soprattutto, affetti come abitudini date. Si alternano così alberghi e deschi serali, disattenzioni da routine, abdicazioni genitoriali a una fiducia di comodo, ipocrisie e trasgressioni di plurime esperienze matrimoniali, contratte per venire infrante sotto la superficie di una fragile o falsa durata. Finché l'ebbrezza del sentirsi viva almeno grazie alla ciclicità e varietà degli appuntamenti (nonché al ripensamento in solitudine su ciò che si prova rispetto a quanto si può immaginare) la porta all'ultima soglia dell'esperienza, che nella sua definitività drammatica riaccende il senso di una possibile apertura verso un'altra, forse diversa estate.
Come ne La vita di Adele (leggi recensione) anche Ozon parla di adolescenza, di iniziazioni, di scuola, di amore e di letteratura sostituendo Rimbaud a Marivaux (Romanzo: "Non si può essere seri a diciassette anni...") e recuperando come colonna sonora le canzoni di Françoise Hardy, ossia il distillato poetico della giovinezza di un ragazzo di quasi due secoli fa e la voce sottile di una ragazza degli anni sessanta, come se oggi non ci fossero più né parole né note adeguate. Ma, a differenza di Kechiche, non ha la pretesa di fondare un mondo solipsistico al punto da voler sostituirsi alla protagonista, bensì disegna un ritratto che è nel contempo sia trama che paradigma, scandito in quattro tempi proprio dalle stagioni, a segnare il percorso di una bellissima Marine Vacth, meritevole di non strafare nella sua indecifrabile, severa astrazione. Non raggiunge i sorprendenti seppur imperfetti risultati di Nella casa (film sul rapporto fra vita e letteratura, ossia tra il vero, il verosimile e l'inventato, qui la recensione) ma ne mutua il gioco di sguardi e di suoni, per cui la protagonista contempla frontalmente se stessa e nel contempo, insieme agli altri, cattura i segreti di individualità e contesti attraverso porte chiuse o socchiuse, come se il mondo, per reggerlo od interpretarlo oltre le sue separatezze, fosse ormai in grado di sopportare solo l'obliquità, il sotterfugio, le intercettazioni di uno spionaggio silente.
Grande ibridatore di generi, di atmosfere e, soprattutto, di ambientazioni che quasi da sole hanno illustrato opere meno riuscite (8 donne e un mistero, Potiche) Ozon è un demiurgo abile ed umano, che non si prende per altro da sé, e ha il gusto misurato di un narratore-scenografo capace di adattare i contesti a quanto vuole rappresentare, consegnandoci con questo film non solo il caso freudiano di un'impenetrabile giovinezza che sviluppa - estremizzandola - la sostanza dei nostri tempi, ma anche i suggerimenti di una riflessione sui costumi degli adulti; riflessione magari un po' patinata e fragile, eppure più efficace delle attuali chiacchiere sugli ultimi casi di cronaca, spingendosi ben oltre l'equazione dilagante fra lenocinio, meretricio adolescenziale, clienti maturi e denaro, per toccare quel grande testo che è a tutt'oggi L'amore e l'Occidente di Denis de Rougemont. Ma di soppiatto, senza darlo a vedere né farlo pesare, volgarizzandolo esemplarmente per un vasto pubblico probabilmente ignaro della fonte.
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GIOVANE E BELLA, di François Ozon, Francia 2013, 94 minuti
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