• Seguici su:
FILM

Virzì, dramma all'italiana

Messo da parte il cliché della commedia, il regista di Ovosodo si addentra in un'Italia fallita, finanziariamente e non solo. Il capitale umano ha un'ottimo cast e qualche veniale difetto


di Marinella Doriguzzi Bozzo


Sorvoleremmo volentieri sui convenevoli di ordinaria attualità, tipo "Virzì chi?" o "Brianza buona / Brianza cattiva" se a quest'ultimo becero dibattito cronachistico non si attagliasse perfettamente una delle frasi emblematiche del film: "Avete scommesso sulla rovina di questo paese e avete vinto". Naturalmente riferita a indebite speculazioni finanziarie sul denaro mediante il denaro, ma utilizzabile anche per l'unico elemento che sembra capace di catalizzare nei secoli l'interesse patrio non di una comunità storico-geografica di singoli individui pensanti, ma di  piccole tribù imbecilli all'ombra dei vari campanili, raffigurati nelle cartoline con prestampati Saluti da, che non si mandano più da decenni.
 
Tratto dall'omonimo libro di Stephen Amidon, con cui abbiamo il piacere di evitare il confronto perché una volta tanto non l'abbiamo letto, il film cerca di trasferire un impianto americano ad una ambientazione italiana, e questo aspetto dà talora adito a qualche innaturalezza tra il macchiettistico e l'impreciso, perché il regista toscano (a proposito di campanili) non solo sembra uno straniero in terra straniera, ma non ha la sulfurea percezione di Luca Guadagnino (Io sono l'amore, 2009) nei confronti delle stratificazioni sociali e delle loro peculiari maniere. Sicché una sbavatura veniale si rintraccia talora nella forzatura sia mimica che verbale di alcuni personaggi, così come un'altra imperfezione risulta dalla trasposizione letteraria alla rappresentazione cinematografica, che delega agli ultimi commenti di coda l'esplicitazione scritta dell'equivoco titolo, e quindi la ragione stessa della sua drammaticità, in parte indebolita da un improvvido finalino pro iuventute.
 
Ciò premesso, lo svolgimento è scandito in tempi (sei mesi prima e sei mesi dopo) e in capitoli intitolati ai personaggi chiave, che si riavvolgono intorno all'incidente d'apertura del film, portando lo spettatore a rivedere gli stessi fatti, ma da punti di vista differenti: un cameriere in bicicletta rientra dallo sminamento delle macerie di un ricco catering, e viene travolto e lasciato morente sul ciglio di una curva, tra l'erba scura e la notte che si sta schiarendo. Quasi mai le scansioni di questo tipo sono foriere di naturalezza e di verosimiglianza, invece Virzì dirige con mano disinvolta e vivace una parabola trasparente  in forma di simil thriller; e mentre dispiega un gonfalone socio-moral-economico dei nostri tempi, lascia fino all'ultimo incerto lo spettatore sulla specifica colpevolezza di una comunità di  colpevoli a prescindere, per il solo fatto di vivere come vivono, dediti esclusivamente al loro particulare guicciardiniano, naturalmente senza averne la minima coscienza culturale. Coscienza culturale a sua volta sfiorata risibilmente dal personaggio di Valeria Bruni Tedeschi, affettata nei toni, rigogliosa nella carne, debole sul teatro, di cui vuole essere comunque patronessa, restaurando uno dei vecchi classici Politeama, col sottofondo della Salomè di Carmelo Bene, cui va tutto il nostro capillare rimpianto.
 
E mentre la sconfitta dell'etica si confonde con la promozione sociale e qualsiasi concetto di errore o di valore della vita viene ridotto a parametri assicurativi o comunque misurabili e quindi negoziabili, tratti psicologici e dettagli narrativi farciscono un racconto che dispone di una fluida dignità e di un interesse superiore alla media dei film di Virzì. Il quale è un dentone gioviale da cui non si possono pretendere le ribalderie visionarie e i mostri partoriti dalle basette guappe di Sorrentino, e che quindi mutua dal suo mondo pregresso una serie di elementi talora incerti, talora opportunamente rielaborati, rinunciando però provvidamente al divertimento palese o facile dell'italica commedia, magari per passare (almeno in parte) ad un altrettanto semplificato dramma.
 
Non abbiamo l'improntitudine di dichiararlo cresciuto o maturato alla tenera età di cinquant'anni, e nemmeno possiamo fare previsioni su eventuali evoluzione del suo stile. Tuttavia, una volta tanto, questo è un prodotto italiano non folgorante, ma con una sua dignità narrativa d'insieme, calibrata sul fronte della sceneggiatura, delle location e delle scenografie, così come funzionali allo scopo sono i timbri fotografici e la duttilità di parte del cast, anche se con qualche istrionismo sopra le righe di Bentivoglio e qualche disagio di Gifuni. Non ci si annoia, e lo si può esportare senza arrossire, magari rimpiangendo l'assenza di un ulteriore colpo di pollice o di spugna qua e là. Ma i tempi consigliano indulgenze e contentamenti, seppur senza rese corrive.


Tags: IL CAPITALE UMANO, Marinella Doriguzzi Bozzo, Paolo Virzì, recensione,
24 Gennaio 2014

Oggetto recensito:
IL CAPITALE UMANO, di Paolo Virzì, Italia 2014, 109 minuti
giudizio:



7.515
Media: 7.5 (2 voti)

Commenti

Invia nuovo commento

Il contenuto di questo campo è privato e non verrà mostrato pubblicamente.
 
CAPTCHA
Questa domanda serve a verificare che il form non venga inviato da procedure automatizzate
Image CAPTCHA
Enter the characters (without spaces) shown in the image.