Tropea pubblica una nuova edizione de Il fiore del male, scritto a quattro mani da René e dal giornalista Carlo Bonini
di Matteo Di Gesù
Certo lì per lì uno sbotta: "ecco, ci mancava pure di tornare a occuparsi di Renato Vallanzasca", ora che Michele Placido ha iniziato le riprese di un film sul bandito della Comasina (o del Giambellino? La questione rimane aperta) interpretato da Kim Rossi Stuart e l’editore Tropea ha tempestivamente stampato una nuova edizione, con altrettanto nuove introduzioni e prefazioni d’autore, del libro da cui è tratto il soggetto di Placido: Il fiore del male, scritto a quattro mani dallo stesso Vallanzasca e dal giornalista Carlo Bonini.
L’occasione, come forse si saprà, è stata oltretutto propizia per riaprire la questione della grazia da concedere al bel René, il quale l’aveva chiesta a suo tempo al presidente della Repubblica con una accorata e dignitosa lettera aperta: causa perorata, tra gli altri, non senza convincenti argomentazioni, da Massimo Fini. Tuttavia, respingendo la tentazione di commentare anche noi la questione della scarcerazione e rimanendo in attesa della pellicola del buon Placido (se non della conferenza stampa di presentazione del film che, prevedibilmente, spiaccicherà la vicenda sull’eterno presente nazionale) vale comunque la pena parlare del libro fresco di ristampa. Per dire subito che, se usato con strategica malizia, potrebbe funzionare come un definitivo argomento da oppugnare contro i residuati di noir italiano (ed è davvero un peccato che non se ne sia fatto questo uso dieci anni fa, quando apparve la prima edizione e i fissati col romanzo nero all’italiana cominciavano a imperversare): intenso e sincero, drammatico e appassionante, il racconto in prima persona del Bandito a Milano, come recita il sottotitolo, arriva dritto al lettore, lo guarda negli occhi senza implorare indulgenze o affettare contrizioni, ma semmai provocandolo nella compiacenza beffarda (e in definitiva amarissima e a ben vedere quasi funerea) con la quale rievoca le proprie imprese criminali. Il merito va evidentemente attribuito anche al coautore Carlo Bonini, eccellente assemblatore degli stralci di vera malavita vissuta raccontati dal suo coautore, oltre che a una scrittura –quella di Vallanzasca stesso- che risente di quelle buone letture vantate quasi svagatamente nel testo. Più precisamente, forse, a funzionare è la strategia di costruzione del racconto: non la consueta intervista, né il referto di una testimonianza, ma un unico, fitto tessuto testuale omogeneo ordito dalle due voci che s’intrecciano nella narrazione e restano distinte solo dall’alternarsi del corsivo di Vallanzasca e dal tondo di Bonini.
Detto questo, ciascun lettore potrà fare la cernita di quale storia dentro la storia lo appassioni di più: l’apprendistato criminale; la prima vera storia d’amore e la nascita di un figlio; la formazione del wild bunch che imperversa per Milano e per le sue banche a suon di mitra negli anni Settanta; i mortali scontri a fuoco; i sequestri di persona, per i quali la regola prevedeva di trattare il prigioniero, preventivamente selezionato spulciando i faldoni dell’Ufficio tributario, come l’ospite di un hotel a cinque stelle (il primo fu quello della bella Emanuela Trapani: i giornali insinuarono di una relazione tra la ragazzina e il bandito, ma questi negò con risoluta eleganza); oppure la rivalità con Turatello e la sua banda, trasformatasi in galera in amicizia fraterna e suggellata con un chiassoso matrimonio dietro le sbarre tra Renato e una delle sue mille spasimanti epistolari, con Turatello testimone; la cupa quanto incredibile vicenda carceraria di Vallanzasca, tra violenze dei secondini, rivolte sanguinose e continue, rocambolesche evasioni.
Personalmente quella che preferisco è la storia dell’infanzia nella periferia milanese anni sessanta: quella di un ragazzino che tra case di ringhiera e baretti scalcinati conosce presto la morte altrui, coltiva insofferenza all’arbitrio del potere e rigoroso ethos di quartiere (tra le sue imprese giovanili la liberazione degli animali di un circo), manifesta la sua precoce vocazione criminale diventando il ladro del rione e rubando, su ordinazione, per i poveri e per le vecchiette.
Ovviamente, letto il libro, la tentazione di comparare l’etica "sbagliata" di Vallanzasca, la sua coerenza e la sua lealtà con la squallida amoralità pubblica trionfante, si fa irresistibile.
Tags: anni di piombo, anni Settanta, carlo bonini, grazia, il fiore del male, Matteo Di Gesù, michele placido, milano, renato vallanzasca, tropea,
Per saperne di più: una puntata della trasmissione La storia siamo noi dedicata a Vallanzasca, http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=115
Del chiedere perdono: Vallanzasca non ha mai chiesto perdono ai parenti delle proprie vittime, né si è proclamato pentito, per "lealtà con se stesso" e per sincero rispetto verso il sentimento privato delle vittime, da onorare col silenzio
Del fascino del bandito: è comprensibile quanto legittimo che una figura come la sua possa suscitarlo. Chissà perché quando Leonardo Sciascia osò dire che capiva che potesse esserci alcunché di seduttivo nella mafia, venne messo in croce
Commenti
Comacina è un refuso. Capita,
Comacina è un refuso. Capita, me ne scuso. Preciso per il lettori del commento del mio omonimo (non per lui che, come si deve desumere, conosce a menadito sia il libro che tuttocittà) che Vallanzasca è nato in via Porpora 162, è cresciuto al Giambellino e che il titolo di "bandito della Comasina", come scrive lui stesso, glie lo affibiarono i "pennivendoli". Così, almeno, mi hanno detto, giacché io i libri non li leggo, ma non resisto alla tentazione di recensirli.
E comunque Vallanzasca è di
E comunque Vallanzasca è di Lambrate. Nel libro di cui ti occupi c'è scritto. Sei sicuro di averlo letto?
Comasina, non Comacina.
Comasina, non Comacina.
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