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Siamo nella stessa casa

Più le finanze stringono e più il modello di famiglia si allarga. Importata dalla Danimarca, la moda del Cohousing vede tanti conquilini non più in età da studente, condividere casa e abitudini domestiche, nel nome del vivere "slow" e nel rispetto della privacy


di Alessandra Testa


A volte, avere le tasche vuote aiuta ad aguzzare l’ingegno. E, soprattutto, a dare concretezza ad uno dei luoghi comuni più abusati in tempi di crisi economica: fare di necessità virtù.
Succede così che, massacrati dalla precarietà, i giovani sfidano l’unica grande certezza donatagli dalla società, una società che sembra fornire loro migliaia di opportunità e che in realtà fa di tutto per escluderli. La sola condizione a tempo indeterminato rimane, infatti, quella di eterni ragazzi, anche se sull’orologio biologico è già scattata la lancetta degli “anta”. Quella condizione, allora, va trasformata a proprio vantaggio. Arrangiandosi e inventandosi una flessibilità a immagine e somiglianza delle sue vittime. Vittime che ora decidono e si fanno attive. Nei fatti e nelle scelte di tutti i giorni.
 
Si scrive cohousing, ma si pronuncia stessi spazi, stessi muri, stessa casa. La pratica che, mutuata dalla Danimarca, spinge sempre più persone a coabitare o a condividere lo stesso ufficio si profila come fosse la formalizzazione di nuove tipologie di coppia di fatto. Quelle che vivono sotto lo stesso tetto, co-pagano le bollette e gestiscono ambienti in maniera collettiva abbattendo costi, impronta ecologica e attivando abitudini virtuose che vanno dal car-sharing fino ai gruppi di acquisto solidale.
 
Bando ai pacs, insomma: la vera sfida oggi è crearsi una famiglia allargata di tipo elettivo e godersela finché privacy non la separi. Eh sì, perché è proprio la privacy l’inconveniente principale del cohousing che arriva ad avvicinare centinaia di sconosciuti mettendone, però, a repentaglio riservatezza e privato. Regola d’oro: dimenticarsi gli anni Settanta. Il cohousing non è, e non deve diventare, una comune hippie.
Se la pratica è ben organizzata - e non stiamo certo parlando della diffusa convivenza fra coinquilini e studenti fuori sede - il risultato può essere a dir poco perfetto. Cioè: case singole per singoli nuclei familiari; asilo nido, laboratori, lavanderia, palestra, orto, Internet point e pannelli fotovoltaici in comune.
 
In questo modo, gli aderenti rispolverano il vecchio e buon vicinato, sorretto da iniziative solidaristiche che vanno dal baratto fino al mutuo-aiuto passando per il concetto, fra l’altro ritornato di moda, del vivere slow. La lentezza diventa il valore in palio più alto per chi sposa la vita del cohouser, progettata dalla “A” alla “Z” in compartecipazione con i vicini di casa. Un matrimonio che prima ancora di essere contratto è già scelta di vita. “Voglio vivere così. Prova a dirmi che sbaglio, se hai coraggio”, è l’anticonvenzionale motto.
 
D’altronde, gli esempi nel mondo sono sempre più numerosi. Tanto è vero che le stesse istituzioni, anche in Italia, si stanno adeguando sostenendo, laddove possono, i progetti nascenti. È successo a Milano, a Roma, a Firenze… sta succedendo a Bologna. I Comuni mettono le risorse e pubblicano i bandi, i giovani rispondono regalando alle città in cui vivono idee e possibilità. Ricostruendo, forse neanche tanto inconsapevolmente, quell’etica della responsabilità individuale che sa tanto di società ideale.



Tags: Alessandra Testa, coabitare, cohousing, conquilini, crisi economica,
22 Marzo 2011

Oggetto recensito:

Cohousing

Sito italiano: www.cohousingitalia.it

giudizio:



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