Al suo primo film occidentale, Abbas Kiarostami dirige la grande attrice nel ruolo che le è valso il premio a Cannes. Un flirt appena iniziato che sembra un rapporto di coppia datato (o viceversa), una serie di ingenue considerazioni sull'arte che sembra realtà (o viceversa). E il personaggio ne esce pesante. In tutti i sensi
di Marinella Doriguzzi Bozzo
Nel 1642 il gesuita spagnolo Baltazar Gracian y Morales pubblicava il suo Arte de ingenio, che si proponeva di dimostrare come il nucleo di un'opera letteraria fosse l’acutezza, intendendo per tale l'atto dell'intelligenza che intuisce e descrive la connessione e la somiglianza esistente fra oggetti diversi; tanto più “acuta”, ossia tanto più pregevole, quanto più ricorrerà a particolarmente ingegnose forme di artificio.
Questo è quanto fa Kiarostami nel suo primo lavoro di stampo prettamente occidentale, stabilendo un rapporto fra le opere d'arte e le loro copie, così come fra un matrimonio e tutti gli altri matrimoni. Quindi, chi si avventurasse per ritrovare il regista persiano, è avvertito fin dall'inizio. Si tratta di un film che volutamente costituisce un altrove rispetto al suo cammino conosciuto. E questo altrove è appunto basato sull'ingegnosità forzata del parallelismo sopra citato.
Siamo in una Toscana volutamente un po' d'accatto, che tralascia i panorami per occuparsi dell'interiorità degli uomini e delle donne: in un imprecisato palazzo di Arezzo, un letterarato straniero sta per illustrare a un pubblico di eletti il proprio libro Copia conforme. E mentre pasticcia amabilmente su di un tema complesso, un’auditrice ritardataria si aggiunge al pubblico, maternamente conturbata dall'approccio agli eventi messo in scena da un figlio adolescente, preoccupato solo del suo giochino elettronico, e acconciata come una spampanata rosa autunnale più che estiva, con ancora il desiderio di mostrare i petali prima che cadano tutti. E quando l'apparentemente distratto figlio intuirà che lui piace a lei, i due si saranno già ritrovati il giorno dopo per un’improbabile gita a Lucignano.
Fra sconosciuti che vogliono qualche cosa l'uno dall'altro (anche se il gioco di lei è più chiaro) fluiscono discorsi da automobile o, meglio, da riempitivo d’attesa: e secoli di cultura artistica, che vedono al centro dell'arte l'imitazione della natura (idea sconfitta tardissimo, solo con l'avvento della fotografia e del cinema) vengono masticati come un chewing gum, senza nemmeno un piccolo sforzo per stabilire le differenze che intercorrono fra falso, replica e copia. Ma tant'è: siamo nella rivisitazione del mito italiano, e in particolare toscano, da parte di un nucleo di ambosessi (lei francese, lui inglese), stracchi nonché tardivi epigoni degli stranieri del Gran tour del 1700 e del 1800.
Finché, in un caffè, una filosofa contadina addetta alla produzione di cappuccini di plastica scambia i due per marito e moglie, avvalorando solo con le sue rughe un'esperienza che, viceversa, dalla parola appare come un elenco di luoghi comuni. Ma il gioco piace, e il film svolta quando i due stanno entrambi all'equivoco, simulando una intimità quindicennale, fatta di qualche abbandono e di molti rigurgiti di incomprensione. Intanto, tutt’attorno, giovani coppie trapunte di bianco e di confetti si sposano secondo la tradizione del paese, pensando di sfuggire alla condivisione della cattiva sorte. Finalmente il sipario cala sull'unico panorama turchino di una certa amabile retorica turistica: né mai sapremo se i due, dopo tanta intimità psicologica, consumeranno o meno anche nella carne.
Film di idee dunque, anzi di un’idea basata sul parallelismo troppo ingegnoso e quindi forzato, fra arte e vita, originali e copie. Di conseguenza, film anche di parole. E qui la mente torna a ben altri tormenti dell'incomunicabilità, scolpiti da Antonioni sempre di profilo, su fondali di cremosi bianchi e neri che rintoccavano magistralmente gli stati d'animo dei protagonisti. Mentre qui la vacuità dei dialoghi è giustamente riecheggiata solo dalla tortuosità vetusta dei sentierini medievali di un villaggio che di fatto (e volutamente) non si vede. Come paragonare un altezzoso, anche supponente, ma squisito Saint Honoré a dei bomboloni alla crema.
Infine, film di interpreti. Premiata dalla giuria dell'ultimo Festival di Cannes, Binoche binocheggia dall'inizio alla fine, e la memoria corre con rimpianto all’incantevole, tesa brunetta del Film blu di Kieslowski - non tanto perchè a produrre i guasti siano stati gli anni, quanto piuttosto i chili. Mentre nella prima parte incespica esitando su ogni parola per simulare imbarazzo, col solo risultato di apparentarsi ad una parodia di Woody Allen, nella seconda si rinfranca, ma secondo uno stereotipo di gesti scontatamente francesi: mani nei capelli, sorrisi seduttivi, abbigliamento e postura di chi, pur essendo appena scesa da una battagliata alcova, deve continuare a sedurre, magari anche con le varici, i piedi gonfi e i capelli regolarmente scarmigliati. Più sobrio lui: attore preso in prestito dalla lirica, debitamente spiegazzato nella sua inglesità sottotono, anche se non siamo riusciti a sbirciargli i calzini. Corti o lunghi? In fondo, la vera domanda del film.
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Copia Conforme, di Abbas Kiarostami, Italia, Iran, Francia 2010, 106 M.
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