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LIBRI - NARRATIVA

Acciaio in versione sud

Cosimo Argentina racconta, in dialetto tarantino strettissimo, la miseria dei lavoratori di una fabbrica metallurgica. Vicolo dell'acciaio non si sforza di essere comprensibile a tutti, ma va anche oltre il regionalismo da marketing


di Lorenza Trai


Per chi scrive quando scrive Cosimo Argentina?
Anche io, che ho respirato la sua stessa aria soffocante di estati tarantine anni Settanta, incespico un pochino nel dipanare le battute in dialetto. Per chi scrive? Forse solo per i suoi concittadini? O forse solo per se stesso? Per rispondere a una urgenza interiore di confrontarsi con i suoi fantasmi personali che parlano tarantino, dialetto violento e volgarissimo, abbaiare reciproco, dialogo all’insegna dell’insulto triviale più o meno cameratesco che costituisce l’ossatura della sua narrazione?
 
Una cosa va detta: in questo involontario scontro dell’acciaio a distanza, per quanto mi riguarda, Taranto e Cosimo Argentina battono Piombino e Avallone 1 a 0. Oltre all’ambientazione siderurgica e popolare, i due romanzi hanno in comune il punto di vista degli adolescenti: "maschio, adulto e solitario" quello di Argentina (in linea con la sua storia editoriale), femminile (al limite del velinismo), più esterno e ritoccato (oso il termine: glamour) quello della Avallone. E se in quest'ultima l’intento sociale era più didascalico, da componimento, quasi da assemblaggio di luoghi comuni, quello di Vicolo dell’acciaio è invece un impudico autoritratto di povertà e dignità di lavoratori in prima linea, raccontato dal di dentro, in un impasto di scirocco, umori e polveri di ferro che ci trascina davanti a un altoforno, dentro la fabbrica, al centro del dramma. 
 
Questo autobiografismo campanilistico, questo quasi fregarsene di essere compreso da tutti è un difetto o un pregio? Risposta difficilissima. E’ quasi come volersi chiedere se sia doveroso, volendo fare della letteratura, disciplinare i contenuti in un quadro stilistico e semantico il più universale possibile o se invece lasciare che il lettore resti spiazzato, disorientato da un mondo altro che esiste e si esprime senza compromessi. Perché il racconto di Argentina è soprattutto sincero: non c’è artificio, non c’è accondiscendenza verso forme di narrativa levigata, tra scuola di scrittura e fiction televisiva e però, va sottolineato, non c’è nello stesso tempo quell’odioso tentativo, studiato a tavolino e spesso presente nella narrativa italiana, di un regionalismo da marketing del pensiero etnico-chic.
 
Insomma quello che colpisce del protagonista Mino è l’adesione dolorosa e consapevole al suo proprio mondo, per quanto drammatico sia: in parole povere il suo non desiderare (come sembrerebbe cifra comune a qualunque adolescente del sud) di scappare via. Simbolico da questo punto di vista il rapporto fra Mino e la fidanzatina Isa. Isa non rinnega l’appartenenza al vicolo dell’acciaio, ma prova anche altre appartenenze più vaste, prova ad allargare il giro, a confrontarsi con gli "ambientalisti da salotto" che Mino tanto disprezza.
Mino invece vuole inspiegabilmente restare se stesso, il suo essere del vicolo, a disagio anche solo in un altro quartiere, incapace di capire che dietro quelle pagine del manuale di giurisprudenza sulle quali consuma ore di studio infruttuoso, forse c’è una possibilità di futuro migliore che vale la pena provare a cogliere. Anche la sua vena di scrittore di piccoli racconti non gli serve a uscire dalle pareti anguste di un destino addossato contro il muro di via Calabria: Mino non cerca una chance, quei racconti sono un impulso primitivo, punto.
  
Così ci spiazza una struttura di racconto che è una linea orizzontale, piatta, piatta, senza impennate, a descrivere vite tutte comprese in palazzi degradati, dove anche gli incidenti sul lavoro, spesso mortali, e i troppi tumori diventano collezione di episodi, non punti di snodo. Ci sono persone, ci racconta Argentina, moderni servi della gleba, la cui esistenza è senza storia, senza svolte, senza successi né fallimenti, senza neanche il desiderio, oltre che la possibilità, di un finale diverso. Ma chissà che non abbia ragione lui a non consolarci con la morale da libro Cuore per la quale bisogna volere scappare dal contesto sociale modesto, arrampicandosi come si può, strappando un titolo di studio, lavandosi la bocca dal vernacolo basso e triviale e, soprattutto, emigrando, cercando poi per tutto il resto della vita di farsi perdonare un accento sbagliato.



Tags: cosimo argentina, dialetto, fandango, Lorenza Trai, recensione, taranto, vicolo dell'acciaio,
29 Marzo 2011

Oggetto recensito:

COSIMO ARGENTINA, VICOLO DELL'ACCIAIO, FANDANGO 2010, P. 260, EURO 15

giudizio:



7.02
Media: 7 (2 voti)

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