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LIBRI - NARRATIVA

La versione di Barnes

Quasi trent'anni dopo quella biografia "sovversiva" che fu Il pappagallo di Flaubert lo scrittore torna agli antichi splendori con ll senso di una fine: un altro romanzo che percorre l'esistenza, tappa per tappa, di un uomo "senza qualità", di nome Tony Webster


di Marinella Doriguzzi Bozzo

 


Nel 1984 usciva Il pappagallo di Flaubert: un volumetto sorprendente, raffinatamente eccentrico (ma nitidamente sorvegliato e lineare, dalla prima all’ultima pagina) in cui uno studioso innamorato dello scrittore francese abbozzava una sorta di sovversiva biografia, in concorrenza, anzi, addirittura "contro" lo stesso autore del romanzo.
 
A distanza di molti anni, Julian Barnes riscopre la stato di grazia di quel suo folgorante libro, dopo prove meno convincenti. E lo fa seguendo un percorso esattamente opposto, ossia mettendo in scena un protagonista narrante che viceversa crede di mantenere la barra di una ragionata "medietà" rispetto a tutte le possibili devianze avventurose che l’esistenza può offrire.
 
La narrazione dei fatti è suddivisa in due parti: la sintesi di una vita secondo la definizione che un personaggio chiave dà della storia con la S maiuscola ("La Storia è quella certezza che prende consistenza là dove le imperfezioni della memoria incontrano l’inadeguatezza della documentazione") e un improvviso, inaspettato richiamo che giunge dal passato - e che obbliga a riconsiderare sia la definizione che la sintesi.
julian-barnes2.jpgMa della trama e dei personaggi non diremo altro: innanzitutto per spirito di contraddizione rispetto alla imperante voga critica riassuntiva e, a maggior ragione, perché questo libro è molto meglio di un giallo intrigante, benché lontanissimo - finalmente!- dalla dispoticità dominante del romanzo di genere.
 
Ci preme viceversa accennare almeno ad alcuni degli elementi che lo sostanziano: la dimostrazione che la vita non promuove per merito; la differenza tra gioventù e vecchiaia, che per i giovani consiste nell’inventare un futuro diverso per se stessi, mentre i vecchi s’ingegnano ad escogitare un passato diverso per gli altri; l’evidenza che il ricordo aggiunge al tempo trascorso piume o pizzi indebiti, e lava macchie di colpa o di rimorso non tanto per il conforto dell’autoinganno assolutorio, quanto per fornire un non-senso compiuto ad un’avventura sempre poco eroica o comunque scarsamente significante. Infine la teoria matematica del vivere, in cui a forza di addizioni e sottrazioni - ma anche di moltiplicazioni e divisioni - alla fine rimane comunque il dubbio se si sia proceduto per vera maturazione o per mero accumulo...
 
Intanto sullo sfondo si muovono donne dai contorni chiari e donne di mistero, giovani che devono aspettare gli anni settanta per poter iniziare a vivere secondo i sessanta oppure che rifiutano tragicamente di farlo, studenti che pensano di prefigurarsi i dolori della maturità, ma non riescono ad immaginare che consisterà prevalentemente nel guardarsi indietro. Relazioni come interminabili banchetti, che iniziano invariabilmente con il dessert, e figli che sembrano crescere troppo in fretta, mentre è l’età dei padri a fare scorrere l’orologio più velocemente.
Insomma temi che riguardano tutti nei vari stadi dell’esistenza, ma espressi così concisamente e in modo talmente ingegnoso da fornire chiarezze in merito a idee o sensazioni che talvolta si percepiscono solo come un ronzìo, e che viceversa qui trovano la loro puntuale epifania grazie ad un incedere  illuminato e coinvolgente.
 
La costruzione narrativa - tra quotidianità e melodramma - è sapiente pur senza la benché minima forzatura e si avvale di una limpida, pacatissima capacità espressiva che sa trascolorare dai registri dell’ironia, dell’umorismo, del dramma a quelli dell’acume logico e sentimentale, fino all’aforisma. Senza la pretesa della sperimentalità e dell’innovazione, a tentare di tracciare sentieri alternativi, bensì secondo un concetto di sottile, meditato classicismo esente da ibridazioni spurie o da civetterie narcisistiche - se si esclude un lievissimo cedimento ai vezzi stilistici della contemporaneità: il coinvolgimento fittizio del lettore tramite piccoli interrogativi fintamente colloquiali.  Intercalare che imperversa in letteratura e sulla rete in forma sempre uguale, tra l’informal-ironico-discorsivo, a simular complicità apocrife e freschezze gioviali che probabilmente celano il timore di una non comprensione o di un eccesso di volatilità dell’attenzione da parte di chi legge.
 
Ma è l’unica , tenuissima sbavatura di un breve romanzo affascinante, che si legge con l’ansia di introiettarne tutte le verità e le disvelazioni, ma anche con il rimpianto anticipato del progressivo assottigliarsi della pagine. Un po’, appunto, come succede nella vita, man mano che la si percorre.



Tags: Einaudi, Il pappagallo di Flaubert, Il senso di una fine, Julian Barnes, Man booker, Marinella Doriguzzi Bozzo, recensione,
05 Giugno 2012

Oggetto recensito:

Julian Barnes, Il senso di una fine, Einaudi 2012, 150 p, 17,50 euro, Man booker prize 2011

 

giudizio:



8.01
Media: 8 (1 vote)

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