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I MANIFESTI/1

Manifesto del nuovo mercato

Inizia con questa recensione una serie di articoli, firmati dal direttore di Giudizio Universale, che prendendo spunto da un libro allargano il discorso fino a formulare delle proposte concrete per cambiare la società. Si parte con il giornalista francese Hervé Kempf e il suo Per salvare il pianeta dobbiamo farla finita con il capitalismo, si arriva alla cooperazione e alla progressività fiscale


di Remo Bassetti

 


Il titolo, Per salvare il pianeta dobbiamo farla finita con il capitalismo, potrebbe far pensare a un vecchio libro di militanza marxista, e sarebbe ingenerosamente riduttivo. Intanto ci sono due metafore fulminanti. Si comincia da piccoli: che oggi vuol dire nel passeggino, ma una volta significava in carrozzina. E’ il passaggio da uno stadio relazionale e comunitario a uno radicalmente individualista: da una parte il bambino che viene accompagnato nel mondo dallo sguardo tutelante del genitore, dall’altra il bambino proiettato in solitudine nella scoperta degli oggetti. Il passeggino come simbolo del capitalismo, chi ci aveva pensato?
 
La seconda metafora è la scomparsa dell’ultimo baluardo della relazione di mercato, pur sempre personale, tra compratore e venditore: la cassiera del supermercato. Si passa alle casse automatiche (le cronache di questi giorni parlano di pessimo funzionamento e insoddisfazione del consumatore in Germania, paese all’avanguardia nell’esperimento), e ciò significa anche scomparsa del linguaggio. Lo scambio di mercato mira alla purezza astratta, punta a eclissare ogni possibile dialettica. E’ l’ultimo strappo rispetto all’economia di mercato (della quale il capitalismo costituisce solo una variante), nella quale anzi la contrattazione personalizzata sulla piazza era un’esplosione di verbalizzazione. Se l’ultimo stadio del capitalismo è l’eliminazione del linguaggio, ciò vuol dire che il capitalismo è più che anti-umanista. E’ anti-umano, perché l’umanità si identifica con il linguaggio. E se si vuole definirne il profilo politico, vale la pena di risalire ad Hannah Arendt: “Il totalitarismo non va verso un regno in cui gli uomini sono oppressi ma verso un sistema nel quale sono superflui”.
 
Anche se l’imprinting del libro di Kempf dovrebbe essere ecologista, le critiche al capitalismo sono di natura sistemica e antropologica. Sistemica, individuando quattro malesseri nei quali strutturalmente il capitalismo si sta dibattendo: l’aumento di produttività che si traduce regolarmente in aumento di produzione con la rottura di ogni argine di sostenibilità, la finanziarizzazione dell’economia mondiale, la corruzione endemica, la crescita delle diseguaglianze sociali. E’ quest’ultima l’anello di congiunzione tra la crisi sistemica e quella antropologica: le diseguaglianze, infatti, creano una classe di ricchi che compete per ostentare le proprie ricchezze (è la classica spiegazione della motivazione consumistica secondo Veblen) e offre un modello sociale scorretto, fondato sull’antagonismo e lo spreco delle risorse. La chiave di volta del cambiamento, dunque, consiste nel mettere mano al livello di disuguaglianza.
 
Come dicevo, il cuore della critica di Kempf è il mutamento, in corso, dell’identità umana. L’ecosistema è piuttosto l’habitat sociale. Un habitat fortemente privatizzato, non solo in senso imprenditoriale: è uno spazio non di interazione ma di occupazione solipsistica, condotta prevalentemente a mezzo di strumenti tecnologici come le auto (che riempiono il 70% della rete viaria trasportando però il 20% delle persone) e i telefoni cellulari (che oscurano la vicinanza fisica tra le persone, rinchiuse in conversazioni con interlocutori lontani, spesso rese invadenti dal tono di voce).
 
Anche se i danni ambientali sono richiamati, all’inizio come alla fine, quale premessa e necessità dei discorsi proposti, Kempf è molto documentato nello smantellare le semplicistiche soluzioni perorate dai sostenitori dalle energie alternative. L’esempio perfetto delle loro illusioni è la piattaforma Sleipner, in Norvegia, che consente di sotterrare nell’oceano un milione di tonnellate di anidride carbonica, ma ha bisogno di una dotazione in termini di apparecchi che ne rimanda nell’atmosfera 900mila! Il senso della critica alle energie alternative, evidentemente, è che non esistono modi di produzione che consentano di lasciare immutati o crescenti i nostri consumi attuali, e quindi l’unica soluzione è la decrescita. Di più: siccome non si può certo imporre l’austerità a chi ancora ha una larga parte della popolazione sotto i minimi di sussistenza, la riduzione dei consumi è questione che riguarda i ceti più agiati dell’occidente.
 
La parte più originale del libro è quella conclusiva. Se dobbiamo “farla finita col capitalismo” qual è la sua alternativa? Kempf trova l’antidoto economico nel mondo della cooperazione. E’ chiaro che per chi abbia qualche cognizione giuridica, in prima battuta, l’idea fa sorridere. Le società cooperative non sono certo oggi una grande alternativa agli altri modelli societari, dei quali sempre più tendono a riprodurre le caratteristiche. Quella che si definisce “mutualità” (tipica della cooperativa, consistente nell’ottenere dalla partecipazione a un’impresa vantaggi diretti invece che utili) è oggi sempre più contaminata (tant’è che la vera cooperativa, per la nostra legge, è quella che ha “mutualità prevalente”).
 
Nel leggere alcuni degli esempi portati da Kempf mi sono reso conto che la mutualità è stata, ed è, una delle grandi svendite della sinistra. Da quelle ceneri, tuttavia, molte iniziative possono germinare e lo dimostrano le prospettive che si aprono nell’agricoltura: le associazioni di “agricoltura sostenuta dalla comunità” per saltare la grande distribuzione e organizzare acquisti di gruppi di consumatori o l’acquisto di terreni in comune per sostenere l’attività di giovani contadini. Ma lo spirito cooperativistico va oltre la bucolica nostalgia dei campi, come ricorda Kempf citando Wikipedia, Linux o il car-sharing. E’ una definizione meno consueta, e non rapace, della modernità: “essa risiede nell’intelligenza della relazione sociale organizzata intorno all’oggetto piuttosto che nell’oggetto stesso”.
 
Al fondo delle tesi di Kempf non c’è la ricusazione dell’economia di mercato, che dovrebbe continuare a riguardare la maggioranza di beni e servizi, ma, da una parte la sua esclusione dalla gestione dei beni comuni essenziali che non possono essere gestiti come merce, e dall’altra l’interferenza a fini di giustizia sociale della tassazione. Qui c’è la proposta più radicale e interessante: una tariffazione progressiva secondo il volume consumato. Ovvero: tutti hanno bisogno d’acqua (per esempio) ed è giusto che tutti se la vedano garantita a prezzo basso. Ma la quantità supplementare per lavare il prato è giusto che sia più cara, e ancor di più la quantità che serve a riempire una piscina. E’ un ottima indicazione per rilanciare la progressività fiscale (in Italia mortificata dall’evasione), spostandola dal tradizionale campo delle imposte dirette a quello delle imposte indirette.
 
Ed ecco quindi, in conclusione, i due manifesti che, sulle ali di questo libro, Giudizio Universale invita ad adottare.
 
MANIFESTO DELLA COOPERAZIONE
Ogni aderente si impegna a partecipare ad almeno un gruppo fondato sulla mutualità oppure sulla condivisione di un bene invece del suo possesso esclusivo.
 
MANIFESTO DELLA PROGRESSIVITA’ FISCALE
Ogni aderente promuove l’idea che la partecipazione delle persone alla contribuzione secondo i propri mezzi vada applicata non solo nel campo delle imposte dirette, ma anche in quello delle imposte indirette, gravando in maniera progressivamente più alta sui consumi di beni essenziali.



Tags: capitalismo, cooperazione, critica, economia di mercato, hervé kempf, manifesto, progressività fiscale, recensione, Remo Bassetti,
15 Settembre 2010

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giudizio:



8.238465
Media: 8.2 (13 voti)

Commenti

Non so dare i voti

Non so dare i voti manualmente, attribuitevi il massimo:) Mi viene in mente il discorso di Philippe Muray sul nuovo uomo Festivus Festivus e la sua crudele mancanza di umanità. Non so se è tradotto in italiano, qui ve ne cito un brano : "....Per il resto il soldo corre piu' in fretta delle società. Si moltiplica anche piu' velocemente. Tale che non ha nemmeno piu' realmente bisogno della partecipazione di una società....

I soldi, la biologia, la giustizia, la televisione, le reti, i media, come si chiamano.

L'umanità in tutti questi piani, è battuta secca. Ovunque in Occidente, o almeno in Europa è diventata superflua. E lo sarà di piu' e piu'. L'umanità lo sentirà ancor piu' crudelmente quando le morbose marionette della demagogia, che copre senza appello cio' che si nomina ancora la sinistra, tutta la sinistra (ed anche la destra che non puo' che imitare la sinistra), le diranno che è insostituibile. Ma non glielo diranno che per accellerare la sua dipendenza, le sue domande patetiche di antidepressivi etici, di ansiolitichi artistici, di psicotropi giudiziari e di sonniferi culturali, come le merci di cui hanno bisogno che lei abbia bisogno... L'uomo di sinistra è lo spacciatore universale di questa umanità in secessione dall'umanità : non puo' che sussistere con il crescere senza sosta della sua clientela di malati, che incontra la sera agli angoli delle strade e di cui aumenta in maniera sistematica le dosi di protezione sociale e di distruzione societaria dalle quali si assicura una fedeltà a prova di bomba di una popolazione cosi' rifatta a suo miraggio e convenienza, per cosi' dire "ricreata", ed in ogni caso senza alcun punto in comune con le umanità precedenti. Questa popolazione si incarna ormai nel nuovo personaggio concettuale che agghinda a suo nome l'insieme del nostro parlare : Festivus Festivus. Questo festivocrate della nuova generazione, che viene dopo l'Homo Festivus, come Sapiens Sapiens è succeduto a l'Homo Sapiens, è l'individuo che festeggia chi festeggia, nello stesso modo in cui Sapiens Sapiens è colui che sa che colui sa ; e se c'è voluto un nuovo nome, non è stato nella vana ambizione di inventarsi cosi' un nuovo individuo, ma perchè questo nuovo individuo era proprio qui, ben osservabile dappertutto, e che relegava il suo antenato Homo Festivus al museo dell'età oscura del festivismo. L'Homo Festivus è diventato Festivus Festivus, pertanto cio' che manca, e questo lo constata anche un bambino di 5 anni, è l'Homo : resta Festivus, scritto due volte, pure martellato, per il quale si vede che il festivismo non lascia piu' spazio a null'altro che a sé stesso e che è dunque diventato abbastanza inutile di parlare, in quanto non gli sfugge niente. In Festivus Festivus si compie la scomparsa di ogni distanza anche minima , del tutto fuori, di tutta la differenza e di tutto il segreto, ma anche di tutta l'illusione e di tutta la realtà, e si realizza cosi' una sorta di fine dell'umano, in sé stesso e da sé stesso, che non è nemmeno l'annuncio di un'altra cosa che scomparirà e per questo mezzo non finirà mai piu'. Cosi' il pleonasmo e la tautologia si sono installati ovunque, e vivono una vita post-umana nel centro città come nelle periferie...." Philippe Muray "Festivus Festivus".

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