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CULTURA

La biblioteca di Babele

Con buona pace della Lega, i dialetti in Italia si parlano ormai più nelle aule universitarie che nelle piazze. Anche per questo il nome del poeta milanese Carlo Porta è noto a pochi. Ma i suoi versi crudi e antiautoritari sono un'eredità che la nostra cultura dovrebbe riscoprire, al di là ogni barriera regionale


di Giampaolo Rugarli

illustrazione di Daniela Tieni


Suppongo che Umberto Bossi sia uomo di cultura peculiare, ma è possibile che il nome di Ludovico Zamenhof gli sia sconosciuto. Meglio così: se Bossi sapesse chi era e che cosa ha fatto, verosimilmente andrebbe a distruggerne la tomba, a Varsavia, dove presumo sia sepolto. Zamenhof tentò di inventare un linguaggio universale, che chiamò esperanto, sperando di affratellare i popoli e di superare la confusione babelica: il tentativo abortì, e l’esperanto sopravvisse come una curiosità, come un’invenzione da mettere sullo scaffale delle cose inutili.
 
Con il suo esperanto, Zamenhof peccò di presunzione; però intuì che nel mondo si parlavano troppe lingue e che, bene o male, l’umanità era alla ricerca di un denominatore comune. Ancora oggi lingue e dialetti si contano a migliaia, ma vi è un dato confortante: il totale tende ad assotigliarsi, e per gli idiomi minoritari, incluso il nostro italiano, la sparizione non sembra lontanissima. Qualcuno prefigura un esperanto in tre versioni, ossia inglese, spagnolo, portoghese. Sarà quel che sarà, ma è certo anacronistica la proposta di Bossi, e dei suoi seguaci, intesa a resuscitare i dialetti dell’Italia cispadana, dialetti che in qualche caso scellerato già appaiono sui cartelli stradali o sui documenti di alcune comunità. Piaccia o no ai leghisti, in Italia ormai si parla in italiano, e così è all’incirca da due secoli (quanto allo scrivere, bisogna andare molto più indietro e ritornare ai tempi di Dante).
 
Sono abbastanza vecchio per ricordare il tempo in cui la circolazione dei dialetti era diffusa, e la mia buona o cattiva sorte ha fatto sì che io familiarizzassi in pari misura con il napoletano e con il milanese. Il dialetto era il marchio dei ceti reputati inferiori, tan’è che il primo passo verso più elevati livelli sociali era la conquista della lingua italiana (e si sorrideva delle storpiature di chi si cimentava nel parlare pulito, abbandonando il lessico vernacolare). Prima la radio e poi la televisione portarono a compimento la promozione della lingua di tutti e la progressiva epurazione del dialetto. Certo, radio e televisione non sono cattedre di eccellenza, però si esprimono in modo comprensibile a tutti, dalle Alpi alla Sicilia.
 
E c’è una notizia che colmerà Bossi di costernazione: quel che rimane dei dialetti, il poco che rimane, non è più un fatto di popolo, ma invece è un fatto a uso e consumo dei letterati, della gente di cultura. Se a Milano qualcuno entrasse in un negozio di alimentari e alla esterrefatta commessa ordinasse “Sciura, la me daga on cantonscin de pan e on tochel de salam o, se el salam ghe nò, de bologna” verrebbe guardato come un pazzo o come un troglodita (forse avrebbe miglior fortuna nei piccoli paesei della Lombardia, ma sarebbe pur sempre considerato un personaggio anomalo). Ormai la gente parla italiano: mediamente lo parla malissimo, oltraggiando il congiutivo e la consecutio, accogliendo voci di lingua inglese (nomination suona meglio di nomina), ma i dialetti (torno a dire) tendono a sopravvivere piuttosto che a vivere. E il fenomeno è comune tanto al nord quanto al sud.
 
In realtà l’interesse filologico di Bossi è del tutto strumentale: gli premeva e continua a premergli dividere l’Italia, forse in due o forse in tre, e, in funzione di questo risultato, di questo Risorgimento alla rovescia, tutto ciò che serve a stabilire o a esacerbare differenze faceva e fa comodo. Anche i dialetti. Che, alla fine, sono stati trattati nel modo peggiore, sono stati tolti alle biblioteche (dove stavano trovando storico rifugio) e restituiti a una strada che parla o prova a parlare altrimenti.
 
Bossi finge di non sapere che la bellezza e la grandezza del meneghino si identificano con Carlo Porta (e qualcun altro, ma non di pari statura). Purtroppo sono persuaso che la maggior parte dei padani doc Porta non lo conoscono e non lo hanno addirittura mai sentito nominare, laddove il nostro è figura eccelsa delle lettere, ed è un precursore, perché, duecento anni fa, toccava temi che la narrativa e la poesia hanno raggiunto solo in epoca recente. Aggiungo che il dialetto consentiva al Porta di dire le cose pane al pane e vino al vino, con una crudezza che ancora adesso desta scandalo.
 
Il poeta, nato a Milano nel 1775 dove morì nel 1821, fu testimone dell’andirivieni di francesi e austriaci per la sua città: di estrazione borghese, ebbe buoni studi, buone amicizie, buone frequentazioni, compreso un interludio veneziano durato qualche anno. Lavorò da burocrate (almeno ufficialmente), sposò una vedova di elevato lignaggio, fu anche attore (a tempo perso e non professionalmente), ebbe qualche fastidio con l’autorità di polizia austriaca, morì ucciso dalla gotta. Chi cercasse la sua sepoltura resterebbe deluso: come accaduto per altri grandi, le sue spoglie mortali furono disperse in una fossa comune.
 
Porta – molto prima di Daniele Capezzone e anche di Giacinto "Marco" Pannella – è un libertario: è in polemica con la stanza dei bottoni, con il potere, con il clero, mentre ha un occhio sollecito e misericorde per ogni umana fragilità, per ogni miseria materiale e più ancora morale. I vinti, i diseredati sono i suoi personaggi. Il suo capolavoro assoluto, la Ninetta del Verzee, è un componimento in ottave lungo poco meno di trecentocinquanta versi: molto in sintesi è la storia di una sventurata fanciulla che scende tutti i gradini della umana abiezione, finché, richiesta dal suo sfruttatore di una prestazione sessuale eterodossa, ritrova un sussulto di dignità e si ribella. “Nunca el cuu poss salvamm, sangua de dì!” prorompe la Ninetta esasperata, e si intende che, pur irrevocabilmente dannata, sospetta l’esistenza di un’anima immortale da non oltraggiare al di là di un certo segno.
 
Noi italiani sappiamo tutto o quasi tutto di Manzoni e pochissimo di Porta, per lungo tempo sottovalutato, relegato tra i minori se non tra gli eccentrici, solo perché la sua lingua è il dialetto milanese. In anni più vicini a noi è stata affermata la grandezza del poeta, ma a parer mio siamo ancora molto lontani dal riconoscere quanto gli spetta. E mi riferisco in particolare al mondo della scuola. Al di là dell’intoppo dialettale, nuoce al Porta la sua polemica anticlericale: il nostro Paese, in virtù di Mussolini, di Togliatti e di Craxi, è uno stato vaticano più che uno stato italiano (sia detto senza rancore, anzi sorridendo). Soprattutto nuoce al Porta il progetto di Umberto Bossi e degli altri uomini verdi: e qui torniamo alle mie considerazioni di partenza, circa la pretesa di fare del dialetto lingua comune, in luogo di ammettere che sarebbe meglio praticarlo nelle università anzi che al mercato.
 
Una previsione per il futuro? E’ innegabile che i dialetti siano destinati a soccombere, e così pure Carlo Porta, condannato ad essere negletto più ancora di adesso. Purtroppo questo declino si compirà nel peggiore dei modi, a ricalco di quanto già in atto presentemente. In Italia stanno perdendo un po’ tutti, ma chi è messa peggio è la cultura, considerata una bardatura inutile, mentre invece, se vissuta con intelligenza, porta civiltà, libertà, sviluppo economico e pace sociale. Ad affermarlo, sia pure a contrario, è la saggezza dei milanesi, che non da oggi avvertono: “Quando la merda la munta in scrann’ / o la fa spussa o la fa dann'...”.



Tags: Carlo Porta, dialetto, esperanto, Giampaolo Rugarli, lingua italiana, linguaggio universale, Ludovico Zamenhof, umberto bossi, Zamenhof,
28 Maggio 2010

Oggetto recensito:

CARLO PORTA

giudizio:



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