Lo spettacolo shakespeariano nell'allestimento del Collettivo di Parma scuote nell'intimo gli spettatori, senza stravolgere il testo
di Sergio Buttiglieri
Fotografie di Marco Caselli Nirmal
Shakespeare: quanto è piacevole leggerlo, tanto, visto a teatro, spesso annoia, perché non è mai abbastanza ben rappresentato, e mai le produzioni sono al livello della sua scrittura polisemica. Del resto, non è semplice restituire la ricchezza del suo linguaggio, i suoi sottotesti, la sua liricità, la sua inarrivabile crudezza e la sua eterna contemporaneità.
Il Collettivo di Parma è uno dei pochi gruppi teatrali che non ci ha mai annoiato quando lo ha messo in scena. Ricordiamo ancora con piacere i loro irriverenti piacevolissimi Amleto (1979), Macbeth (1980) ed Enrico IV (1981): c'era sempre la giusta ironia, la rara capacità di mischiare il nostro tempo con quello di Shakespeare; il gusto di riderne, ma anche la capacità di emozionare ed indignare attraverso un testo tradito ma mai messo da parte. Dissezionato, riletto, ma sempre coerente con l'originale. Osservato con occhi disincantati e stupiti come quelli che, a un certo punto, hanno gli attori, in questo ultimo implacabile Riccardo III appena andato in scena a Parma in prima nazionale, quando si sporgono tutti nella notte buia oltre il muro che li circonda, citando una famosa foto di Cartier Bresson.
Un Riccardo III, il loro, a metà fra un Basquiat graffitaro e un cunto siciliano, efficacemente riassunto come lunga sequela di delitti sui claustrofobici muri che racchiudono la scena. Al di là della trafila dei vari re Edoardo e principi e duchi Riccardo, Giorgio, eccetera eccetera in cui noi come loro ci perdiamo, quello che ancora una volta coinvolge lo spettatore è l'interessante chiave di lettura che questo gruppo ha avuto nei confronti di Shakespeare.
L'ultima piacevole produzione della Fondazione del Teatro Due è ambientata in un serraglio dal sapore psichiatrico, disseminata di sedie che sembrano uscite dalle sale di attesa ambulatoriali delle nostre indimenticate Usl. Le tenebrose pareti/lavagna su cui fissare la storia e le ossessioni di ognuno, sono arginate nel proscenio da una inquietante immensa panca/bara da cui fuoriesce l'ansimante Re Edoardo, e da cui sporgono le scenette con i sicari, che sembrano marionette veneziane. Nella panca/bara osserveremo la luce sacrale del re morente, e Riccardo terzo comincerà a ficcare il fratello Clarence: "che il re lasci a me il mondo e mi lasci svolgere le mie trame"; primo di una infinita serie di omicidi efferati che compirà in questo magistrale orrorifico testo, scritto probabilmente nel 1592.
Questo dramma è l'elegia della perfida e sensuale dialettica di Riccardo III, che tutto conquista attraverso il linguaggio: "il mio cuore è tutto nella mia lingua". In effetti c'è in Riccardo III, restituitoci questa volta da un intenso, pervasivo, magnificamente crudele, Roberto Abbati, un eterno arrovellamento interiore che anticipa gli invasivi monologhi del nostro Novecento letterario, a cominciare da Joyce. Abbati è irresistibile quando, inginocchiato come fosse la Maddalena al capezzale della croce, fa la verginella che dice di no, di no e poi alla fine cede per accaparrarsi la corona. E quando fa il mafioso sulla poltrona da barbiere, quando infine è travolto dal ridondante cavallo barocco pittato di rosso (sempre fuori scena come presagio di effimere insostenibili grandezze), mentre tutti gli altri, al suono di una piacevole musichetta, attendono sorridenti e bardati di occhiali neri da spiaggia l'arrivo di Richmond, abbagliati dalla sua irresistibile bellezza.
D'altronde ogni spettacolo del Collettivo, a cominciare dalla loro incredibile Istruttoria di Peter Weiss (1984) in scena da non so più quanti anni, è un castello di sabbia, un'effimera cattedrale che, col passare degli anni, perde i contorni, tremola, si assottiglia nell'acqua della memoria. E questi attori sono inequivocalmente posseduti dalla magnifica ossessione di ridare forma a ciò che si sta apparentemente sfaldando.
A cominciare da Gigi Dall'Aglio, sempre al contempo sornione e drammatico nel ruolo di Clarence con delle catene che paiono collane, ma anche in quello di Edoardo IV con delle corone che sembrano cappellini da passeggio con cui canticchiare din don dan, raccontando la sua improvvida cecità ("Clarence non aveva colpe se non nel suo pensiero") mentre il pulsare dell'elettrocardiogramma si fa sempre più irrefrenabile. Con quella ironia insuperabile che ti fa amare Shakespeare come fosse l'ultimo giovane geniale autore emergente del XXI secolo, accompagnato dalle musiche elettroniche di Nyman, che non ha paura di citare dentro il Riccardo III il Posto delle Fragole di Bergman.
Ricordiamo con piacere anche la frangetta e gli occhialini di Paolo Bocelli nel ruolo di Buckingham, il cugino adulatore voltagabbana dall'incontenibile prosopopea. Oppure l'algida Cristina Cattellani, perfetta disperata regina Elisabetta, o ancora la calcolatrice Lady Anna, intensamente interpretata da Laura Cleri, irrimediabilemente sedotta dalla travolgente perfida oratoria di Riccardo III. Per non parlare di Tania Rocchetta nei panni della regina Margherita, persa nei fumi dell'alcol, atteggiata come fosse una sorta di medusa caravaggesca, dalla capigliatura invasa da furori simili a pennelli, con cui impiastricciare i muri di frasi emblematiche della sua triste vita: "ciascuno ha una sola ombra, voi a tante ombre sembrate". O, infine, Marcello Vazzoler, insuperabile cinico Hastings, spassosissimo improbabile killer con la bombetta e la pistola che perde il caricatore, figura che restituisce la giusta corporeità al testo.
Quello che ci affascina in questo Riccardo III è che il teatro shakesperiano diventa il luogo dove il riflesso di ciò che siamo viene consegnato senza tanti filtri. Attraverso questa interminabile sequenza di morti che semplicemente vediamo scorrere in scena, ma che forse sono il tragico riflesso della nostra non esistenza, rendiamo ancora valido il grido di Genet che rivolgeva agli spettatori di fronte alle sue rappresentazioni: "bisogna danzare sulle teste dei morti che vengono a vederci, bisogna scuoterli in un rito dionisiaco". Questo desiderio di scuotere, di generare dei quesiti e di riconsiderare la propria esistenza è forse l'essenza del vero teatro che il Collettivo di Parma da sempre in qualche modo percorre, stupendoci ogni volta.
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RICCARDO III DI WILLIAM SHAKESPEARE, COLLETTIVO DI PARMA
Prossimamente: visto in anteprima nazionale a Parma, sarà tournée nella prossima stagione

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