TEATRO
Nostro signore delle carceri
E' Armando Punzo, che come ogni anno ci propone i suoi allestimenti unici all'interno del penitenziario di Volterra. Come sempre lontano dal buonismo ricattatorio e dalle lusinghe della fama, stavolta è alle prese con Santo Genet, commediante e martire
di
Igor Vazzaz
C'è qualcosa di inaudito e impossibile, nel teatro di Armando Punzo e della Compagnia della Fortezza, nel senso letterale dei termini: inaudito come inascoltato, oltre che inusitato, grido d'allarme entusiasta e sanguinante che giunge da quell'altrove inferico che è l'istituto penale; impossibile non perché materialmente irrealizzabile, ma perché il gioco (al massacro) utopico praticato da questo teatrante allucinato sembra sempre sfuggire alla contrattazione, quasi applicasse davvero quel paradossale slogan lottacontinuista che recitava "Se ci dai dieci, chiediamo cento... Se ci dai cento, mille noi vogliam". Non è posa maledetta, inerte vezzo artistoide o velleità da politicante, bensì penetrazione carsica nella materia teatrale, urgenza feroce di rilancio e fuga dall'individuazione, disperata motilità di pensiero e scrittura.
Per questo, e molto altro, poco siamo inclini a conceder a coloro, e ve ne sono, che pervengono al Mastio volterrano e, dinanzi ai già noti cunicoli del carcere parati (già ospitarono Alice nel paese delle meraviglie e l’evoluzione Hamlice, nella crasi scespiriana con Hamlet), storcono il naso a dir "Cose già viste...". Un corno, per non ribatter d'altro. Ché se è pur vero come il teatro di ricerca abbia l'obbligo del costante ripensamento sottraendosi dal pelago di certezze accumulate in precedenza, è altrettanto pacifico che a sondare il ripensamento rendesi necessario l'ascolto, la penetrazione dello sguardo, l'apertura di cuore e cervello. E poi: nessuno, ci pare, ha mai sottovalutato Eduardo lamentando quanto pur sempre si trattasse di drammaturgia convenzionale, quindi non vediamo dove stia il problema se quest’altro campano adottato dalla città di vento e di macigno sfrutta di nuovo quel teatro potente che è l'interno del carcere.
Dopo l’usata attesa all'ingresso. in quello che comunque è pur sempre un istituto di pena, alla presenza d’un personale consumato ad accoglier spettatori del carnevale estivo di VolterraTeatro, si entra nei cortili che, negli anni, Punzo ha consacrato e ribattezzato in onore di una costellazione artistica di riferimenti maestri: Leopardi, Dalì, Rabelais, Kafka, Genet. A quest'ultimo, vero ultimo dei veri maudit, è dedicato l'allestimento 2013: Santo Genet. Commediante e martire. Accolti dallo stesso Punzo en travesti, abito lungo, ventaglio, cerone a simular pelle diafana da ventenne in fantasia floreal-fiorita, s’attraversa un corridoio di corpi marinari d’eco fassbinderiana (Querelle de Brest, ultimo lavoro del regista bavarese, ispirato al romanzo di Genet del 1947), si penetra nei bassi budelli dell'ala penitenziaria interamente consacrati a un'estetica da lupanare, quasi a ricordar certi tuguri affestati di Rue Lepic (dove il dottor Destouches, altresì noto alle Lettere come Louis Cèline, esercitava professione medica tra le due guerre). Pareti ricoperte di drappi neri e specchi dalle fogge più varie, distopico altrove floreale sovraffollato di pubblico deambulante e presenze ambivalenti: negri statuari in divisa, spose riverse in teche ricolme di petali, spiantati narratori, cantori cinesi con tanto d'ombrellino, per una sorta di Spoon River trasudante ebbrezza e paradosso sensuale.
Domina una scrittura di scena che, se già rivista nell'arsenale espressivo punziano, abbandona la sfida alla poesia di Mercuzio non deve morire!, per imbersi capo e piedi nel dettato genettiano, la sua paradossale e corporea intelligenza, qualità che ne ha fatto, assieme al succitato antisemita, la miglior penna (e non ce ne voglia Proust) del Novecento francese. Ha bel gioco, Punzo, nella scelta di cotanti maestri, ma come dargli torto? E allora eccoci piegati dalla danza delle parole, dalla progressione asociale e quindi non ricattatoria e quindi onesta, santa, di un'arte non appoggiata alla giustezza come stampella per l'estetica, ma che fa del bello, anzi del sublime sospeso tra crimine e amore, cuore pulsante di rose e sangue. Il disegno sonoro del fedele Andrea Salvadori fa il resto, cullando gli assoli attorici in una dimensione di caos gioioso, in cui ogni spettatore vede segmenti diversi ma, miracolo, lo stesso allestimento.
Punzo riconduce, guida il suo popolo di spettattori con-fusi nell'emorragica fiumana per il ritorno al cielo brillante del cortile a sbarre: di qua noi, ordinari, umani, quelli che hanno un posto cui ritornare; di là, loro, alieni e alienati, baciati dal delitto e dalla poesia, nella sfida impossibile pronta sempre al rilancio. Applausi, e se questa è ripetitività, ci mettiamo la firma. Non gridando al miracolo, ché, quello, Punzo l’ha compiuto e da un pezzo, né al capolavoro a priori come altri son lestissimi (troppo) a fare. Ci arrendiamo, però, all’ennesima evidenza d’un mondo che non dimenticheremo, il che, se non è tutto (e non lo è), è tutt’altro che poco.
Tags:
armando punzo, Igor Vazzaz, recensione, Santo Genet commediante e martire, Volterra,
12 Agosto 2013
Oggetto recensito:
Santo Genet. Commediante e Martire, drammaturgia e regia di Armando Punzo
Il resto della locandina: troppo lunga, andate qua
Visto a: Volterra, carcere, il 24 luglio 2013 nell’ambito di VolterraTeatro 2013
La classe non è acqua: la Compagnia della Fortezza è ormai nota per la bravura e la potenza diversa di vari suoi attori, tra cui l’ormai noto Aniello Arena, Nastro d’Argento come protagonista del film Reality di Matteo Garrone; non aver “sfruttato” furbescamente la presenza della “star” è un altro punto a favore della costruzione complessiva di Punzo
Il dilemma: come spesso accade, sarà interessante (ri)vedere il lavoro negli allestimenti frontali in spazi scenici ordinari, problema che la Compagnia ha, comunque, spesso risolto brillantemente
Il libro: È ai vinti che va il suo amore - 25 anni di teatro della Compagnia della Fortezza di Volterra, di Armando Punzo, Clichy Editore, 2013
Il merito inusitato: essersi introdotto in carcere a fare teatro vero, con l’estetica e l’arte come sole stelle polari, senza affondar lo stivale nella melma del ricattatorio, del sociale, dell’attualità. Su quel fronte, la battaglia è altrove, nella pluriennale battaglia a favore di un teatro stabile (che ci auguriamo non immobile) all’interno del Carcere di Volterra
giudizio:
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