• Seguici su:
FILM

Johnnie To, sogni di vendetta

In Vendicami l'ex rockstar Johnny Hallyday nei panni di un transfuga della mafia di Hong Kong che torna dall'Europa per rendere giustizia ai familiari uccisi. Il maestro del noir asiatico firma un lavoro onirico, che punta ai sensi più che alla ragione


di Marinella Doriguzzi Bozzo


L'inizio ti inchioda: un posto non ancora precisato del mondo, una cucina dove bollono pentole animistiche e sornione, il vapore che rende traslucida una vetrata grigia di pioggia da cui una madre benevola spia l'arrivo del marito e dei due figli, anatroccolati in impermeabilini gialli. Poi gli uomini scuri, gli spari, la donna che resiste e protegge, i bambini che hanno visto e vengono sacrificati. E Johnny Hallyday che s'avanza nero dall'Europa, espiando per sempre nel volto irriconoscibile la rockstar ossigenata che lo vide giovane. E fa una promessa, che è al tempo stesso di obbedienza all'imperativo categorico del titolo nonché sconfinamento nel lamento e nella supplica: perchè di etica e di valori stiamo parlando. Quelli della Triade, che ha comunque un suo codice, un suo onore, le sue regole: rispetta il senso della famiglia, degli affetti, delle amicizie, così come devolve al cibo la trasmissione della sicurezza e dei codici parentali, a loro volta strettamente interrelati al denaro, alle armi, al doppio gioco, al tradimento, alla morte.
 
Comincia così un film avvincente, che, più che di ciò che narra, si preoccupa del linguaggio estetico con cui lo fa e dell'impatto emotivo che suscita. Siamo a Macao, nelle mani di un regista, sceneggiatore, produttore fra i più famosi. Che continua spostandosi a Hong Kong a miscelare i generi, iniettando delle forme di western stilizzato in suggestioni tratte direttamente dai polar francesi di Melville, a loro volta innestati sui filoni dedicati alla mafia orientale, così come sul wuxapian cinese - genere asiatico assimilabile al nostro cappa e spada.
 
Ma ha un senso la vendetta, se non si ha più memoria? Così, mentre la storia si dipana per segmenti, irrompe all'improvviso la domanda chiave del film. Che non promette una risposta, ma sottolinea come l'essenziale non sia tanto cominciare una narrazione svolgendola con consequenzialità, quanto colpire lo spettatore con uno stile e una forma funzionali alle emozioni che la sottendono. E non importa se la pellicola finisce senza saper finire, perché qualcuno s'addormenta strada facendo, e qualcun altro porta vie le sedie prima della conclusione. Quello che conta è usare lo schermo per l'esercizio di una maestria geometrica alla Greenaway, provetto nella scansione spaziale delle scene. Una narrativa a strisce orizzontali, impastate di tutte le più cupe sfumature dell'indaco (non diversamente dal procedere dei fondali oro e prugna del film La promessa di John Hillcoat) che si alternano a strette verticali di ripide scale discese in fretta, vuoi per colpire vuoi per fuggire, secondo un bianco e nero inquieto che ricorda le architetture di un Piranesi povero. 
 
L'indifferenziata e visionaria traiettoria degli spari crivella la pioggia e il buio, tracciando ovunque filamenti da arazzo, mentre la macchina da presa riesce a filmare angolazioni che non sono meri virtuosismi tecnici, bensì efficaci quando non sconcertanti punti di vista prospettici, che sembrano ingoiare dal basso sia le armi che gli uomini. Fino ad una delle genialmente visionarie scene finali, in una discarica stile Bronx, tra i volumi squadrati del pattume a fare da scudo allucinato e quasi medievale alle fazioni contrapposte.   
 
Tutto ciò senza la minima sfumatura di supponenza sperimentale o di una contaminazione di stili fine a se stessa. Si segue una cifra realistico-affabulatoria assolutamente originale, anche se non completamente sorvegliata, che ha l'andamento dei sogni quando al mattino il sonno si fa più leggero. Viene sfruttato ogni segno, anche le rughe, i pori, i peli, le cicatrici e ogni umana traccia corporale degli attori come interpunzioni grafiche di maschere che fanno da contraltare ai fuochi artificiali disegnati nel buio da un bambino saputo. Sicchè anche la recitazione è ingiudicabile, in quanto parte intrinseca della messa in scena teatrale. La stessa colonna sonora, poi, è un tessuto trapunto di spari che hanno un loro impatto musicale, rappresentando di fatto un'inflazione ipertrofica del suono vero, proprio come l'uso dell'impasto di lingue, che ora avvicina ora allontana lo spettatore.
 
E tuttavia non si tratta di un film complesso o prezioso; anzi, può venire tacciato di una certa superficiale faciloneria. Ma è comunque un'opera affascinante, contradditoria, assolutamente imperfetta, che può dare del filo da torcere al cinefilo specializzato nel genere così come sorprendere l'ignaro che vi si abbandoni con la diretta ingenuità dei sensi. E che certamente può portare a discussioni passionali e speculari, nel bene come nel male, ma difficilmente lasciare indifferenti. Da vedere, purchè non ci si lasci sviare dal pur degno cognome di Tarantino, seminato impropriamente a piene mani in ogni possibile pretesto di solco.



Tags: asia, cinema orientale, Giovanni battista, Hong Kong, John Hillcoat, Johnnie To, Johnny Hallyday, La promessa, Marinella Doriguzzi Bozzo, noir, Piranesi, polar, vendetta, Vendicami, Western, wuxapian,
27 Maggio 2010

Oggetto recensito:

VENDICAMI, di Johnnie To, Francia/Hong Kong 2009, 108 m.

giudizio:



7.515
Media: 7.5 (2 voti)

Commenti

Invia nuovo commento

Il contenuto di questo campo è privato e non verrà mostrato pubblicamente.
 
CAPTCHA
Questa domanda serve a verificare che il form non venga inviato da procedure automatizzate
Image CAPTCHA
Enter the characters (without spaces) shown in the image.