A ventisei anni dalla tragedia della centrale, Il ciclista di Cernobyl dello spagnolo Javier Sebastiàn torna sul luogo del delitto, a Pripjat’. Protagonista il fisico Vasilij Nesterenko, che ha realmente diretto l'istituto per l'Energia atomica russa. Un romanzo che insegna il valore della lentezza, nella vita come nella lettura
di Stefano Nicosia
(particolare dalla copertina di Guido Scarabottolo)
Se cercaste Cernobyl su un atlante, la trovereste quasi sul confine tra Ucraina e Bielorussia. Chi è nato prima degli anni Ottanta si ricorderà le carte dei telegiornali nei servizi sul disastro, la sagoma stilizzata della centrale, le fotografie grigie di nuvolaglia bassa, con le torri a fasce rosse sullo sfondo. Se oggi entraste nella vicina Pripjat’, negli edifici abbandonati, senza più le porte, le piante tra i mattoni, trovereste ancora gli oggetti cristallizzati in un’attesa che non verrà ricompensata. Quasi nessuno è più tornato in quelle stanze, soltanto i cani randagi, gli sciacalli, e pochi abitanti che ostinatamente vivono in una città che piano piano è stata erosa dal tempo.
Vasilij Nesterenko, fisico nucleare sovietico, è lo sguardo mite ma caparbio che si aggira nella città silenziosa, coperta di neve, irrimediabilmente bianca e grigia. Per anni si è occupato di energia atomica per l’URSS, come direttore dell’Istituto per l’Energia Nucleare, fin quando Cernobyl segna la frattura, nella sua vita e nella sua carriera. Nesterenko capisce che, in quella primavera sovietica del 1986, in realtà molto è ancora gelato sotto il silenzio governativo. Sembra un romanzo, ma non lo è: Vasilij – Vasja – viene emarginato, minacciato, poi blandito, e infine fonda un istituto indipendente per monitorare le conseguenze del disastro.
È questo scienziato il protagonista del romanzo di Javier Sebastián, basato su alcuni episodi della vera vita di Nesterenko. Il ciclista di Cernobyl è sì romanzo, ambientato però lì dove l’esatto confine tra la realtà e la sua rappresentazione viene abolito dalle circostanze storiche, tragiche, dell’esplosione della centrale. Pripjat’ esiste, Nesterenko è esistito, i rapporti che vengono citati nel romanzo sono veri documenti sull’incidente nucleare, le cifre, la radioattività sono tremendamente veri. Sotto la neve si deve tuttavia rinegoziare la realtà brano a brano. Ricostruire il legame con i luoghi, con gli altri. L’autoscontro abbandonato, il secondo spazio con cui si apre il libro, diventa il luogo dove Vasilij ricrea la vita e dal quale davvero riesce a ripartire la storia, che è fatta di uomini.
Lungo le pagine, si vedono a poco a poco ricrearsi i rapporti, come se una nuova maglia si ricostruisse sopra quella sconvolta dal disastro della centrale. Sebastián è formidabile nel tenere insieme due livelli temporali di narrazione, non freddamente paralleli, ma al contrario sempre in gioco di specchi reciproci. L’alternanza di scene è a tratti surreale, ma all'autore basta mettere le realtà a contatto, e farle reagire tra loro. Il cortocircuito tra le due vite non esaurisce i suoi effetti nel breve giro di qualche pagina. Persiste, lentamente, fino alla fine, modulandosi secondo la partizione che l’autore ha voluto dare alla storia: in parte fiction, altrove invece quasi pamphlet (non solo negli argomenti, ma si nota un picco di ritmo, quasi uno sbalzo sul tracciato dell’elettrocardiogramma) o cronaca. Rimane, fin quando non si chiude, la perplessità che sia tutto vero, la speranza che sia tutto finto.
Forse oggi è impossibile accreditare ai lettori voraci la lentezza come un valore, eppure questo libro procede con l’inesorabilità che solo un lungo racconto – che ha bisogno di tutte le tappe per essere davvero compreso – possiede. Rispecchia in maniera perfetta la dilatazione dei tempi e dei luoghi innevati dell’Ucraina atomica.
Nel bianco di Pripjat’ si sente il silenzio dell’abbandono, il dialogo di una persona sola con un mondo che se n’è andato, morto o partito. L’inesorabile lentezza del gelo e del silenzio, progressivamente sospinti altrove dalla riappropriazione dello spazio, scrivono nelle parole dello scrittore spagnolo una storia di uno spazio confinato, confinante, dove alcuni uomini sono isolati, e vivono come nella ripetizione di pochi gesti che li mantengono ancora uomini. I vuoti di Pripjat’ non sono quelli delle attese, sono quelli delle ritirate, come di eserciti in fuga. Ma la scrittura di Sebastián fa emergere, con leggerezza poetica a volte, la sospensione, come fase di un ciclo in cui il movimento resiste all’attrito del tempo. È il movimento della bicicletta di Nesterenko, in volo sul bianco niveo dell’illustrazione di copertina di Guido Scarabottolo, matita meravigliosa come sempre.
Sebastián possiede il dono della descrizione fotografica, del dettaglio folgorante, senza però l’aggressività dell’epifania visuale. Il ciclista è il suo primo romanzo tradotto in Italia (dal bravo Bruno Arpaia: anche se nitrogeno va tradotto ‘azoto’, ed è forse l’unica sbavatura) e – come si dice in queste occasioni – già premio Cálamo Libro del año 2011 in Spagna. Ma l’autore non ha bisogno di statuette d’oro di presentazione: la sua elegante semplicità conquista dalla prima pagina.
Tags: Guido Scarabottolo, Il ciclista di Cernobyl, Javier Sebastián, Nesterenko, Pripjat’, recensione, Stefano Nicosia,
Javier Sebastiàn, Il ciclista di Cernobyl, Guanda 2011, p 229, 17 euro
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