Riproposto da Marcos y Marcos il romanzo migliore di Walker Percy, autore di successo negli Usa degli anni ’60 ma poco noto in Italia. L’uomo che andava al cinema è un libro moderno nello stile e ha un bel protagonista, che mette costantemente a paragone le situazioni modello delle pellicole con la modesta realtà quotidiana
di Alessandra Montrucchio
(Illustrazione di Elide Gramegna)
Questo il criterio che deve avere spinto Marcos y Marcos a riproporre – dopo l’edizione Mondadori dell’89 – il romanzo più famoso di un autore non famoso, almeno da noi: L’uomo che andava al cinema di Walker Percy. Ma è un buon libro?
Certo non è vecchio, pur essendo del 1961. Per trama, scrittura, protagonista. In realtà, una trama vera e propria non c’è, sostituita da un susseguirsi di divagazioni. A divagare è Binx Bolling: un agente di cambio il quale, tornato dalla guerra di Corea con più cicatrici di quelle che si vedono, si divide tra cinema, visite alla zia, lavoro, corte alla segretaria e dialoghi con la figliastra della zia, Kate, sempre depressa e sull’orlo del suicidio.
Tra un film e l’altro – il cinema è il termine di paragone costante: la perfetta vita filmica e l’imperfetta vita reale – Binx osserva il mondo e le persone, verso cui prova una gratitudine e meraviglia tali da spingerlo a tentare una non meglio definita Ricerca, quella capace (forse) di cogliere il senso ultimo del Tutto. Ma la sua unica, vera ricerca è Kate: e aiutarla ad affrontare l’esistenza.
Nemmeno lo stile è vecchio, tutt’altro. Anche nella versione italiana si può godere di un linguaggio senza le affettazioni e le prudérie di tanti libri dell’epoca; e la voce di Binx è così viva da generare passaggi incantevoli, di esemplare aderenza tra significato e significante. Esempi: “Il disagio è la pena della perdita. Il mondo è perso ai vostri occhi, il mondo e le persone che lo abitano, e rimanete solo voi e il mondo e non siete più in grado di stare nel mondo”. “Alle tre del mattino mi sveglio bruscamente in mezzo al profumo dei sogni e degli anni che ritornano in mente, si affollano e poi vengono soffiati via di nuovo”.
O ancora, decisamente attuale: “Non c’è nulla di nuovo nel furto, nella libidine, nella bugia, nell’adulterio. La vera novità è che nella nostra epoca bugiardi, ladri, puttane e adulteri desiderano anche ricevere congratulazioni ed effettivamente ne ricevono, dal grande pubblico, se la loro confessione è sufficientemente psicologica o se tocca una nota di sincerità sufficientemente profonda e autentica”. In una lievità di toni che non è mai superficialità.
Un libro giovane, dunque – solo Kate, nonostante la modernissima depressione, ha un che di antiquato, senza però raggiungere la statura di un’eroina alla Fitzgerald. Un libro bello? Forse la risposta corretta è: un libro costituito da molti elementi belli. Ma troppo lungo per reggersi su una trama così evanescente senza diventare noioso. Con troppi personaggi per saperli distinguere. E con una storia d’amore che non è tale: Binx e Kate sembrano una società di mutuo soccorso, non una coppia. E chiudendo il volume, viene da pensare: belle frasi. Bel personaggio. E quella scena tra lui e la segretaria in ufficio: bella. Il romanzo passa come una brezza. Che ti accarezza le guance, ti strappa un sorriso, ma subito svanisce.
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Walker Percy, L’uomo che andava al cinema, Marcos y Marcos 2010, p. 348, euro 11
Traduzione: di Eileen Romano. Discreta, un po’ troppi problemi di consecutio temporum nei flashback
L’autore: Walker Percy (1916-1990) nasce in Alabama in una famiglia tanto abbiente quanto sfortunata: il padre si suicida, la madre muore in un incidente. Cresciuto dallo zio, si laurea in medicina, ma dopo una lunga malattia (la tubercolosi) si converte al cattolicesimo e si consacra alla letteratura
I suoi riferimenti: Søren Kierkegaard (sua l’epigrafe del romanzo) e Fëdor Dostoevskij
Opere tradotte in italiano: Amore tra le rovine (Rizzoli 1973) e La sindrome di Thanatos (Feltrinelli 1988). Per scoprirne altre, ovviamente c’è Wikipedia
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