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LIBRI

Le finzioni americane

Nei racconti di Judy Budnitz il fantastico prende poco alla volta il sopravvento sul reale


di Dario De Marco


Quando da ragazzini cominciammo ad ascoltare musica per conto nostro, capimmo subito una cosa: che le canzoni sono ingannatrici. La musica per conto nostro erano magari gli stessi zuccheri e vaschirossi che passava la radio o imponevano le casse dei pub, ma eravamo noi a scegliere il dove, il come, il quando. Si era a cavallo tra l’era del vinile e la stagione del cd, ma noi il più delle volte potevamo permetterci solo duplicazioni su cassette vergini, che poi facevamo andare all’infinito su mangianastri che nomen omen le maciullavano. I più fissati tra noi, ubriachi di libertà, si ergevano a giudici e segnavano con una crocetta di fianco al titolo le canzoni più belle. Come se una canzone bella si potesse dimenticare. Ed ecco trovato l’inganno: i pezzi che ci entusiasmavano subito, quelli più immediati e memorizzabili, non reggevano al terzo ascolto e spesso neanche al secondo. L’orecchiabile presto volgeva in stucchevole, si rivelava sciapito quando non fastidioso, o come imparammo a dire con una smorfia, “commerciale”. Al contrario, le cose più ostiche, quelle che le prime volte “ma che palle, fai fwd”, potevano celare perle che emergevano solo dopo vari ascolti. E che poi, però, si potevano risentire altre cento volte senza mai stancare.
Ma che ci azzecca, vi chiederete voi, questa premessa di carattere personale e diaristico? Tranquilli, adesso ne arriva un’altra, di carattere generale e teorico.
 
Il racconto fantastico ha una tradizione lunga, nobile e del tutto marginale nella letteratura: da Poe a Borges passando per Kafka, molti grandi l’hanno messo al centro della propria produzione, e sono passati alla storia per altro.
Questa forma a volte pende nettamente dal lato della fantascienza (Philip Dick, il secondo Primo Levi), altre più dal lato del surreale (Cortàzar, Buzzati). Sempre è caratterizzata da una brevità che non esime dall’immaginare interi mondi, governati da proprie assurde, meravigliose, perverse leggi. E’ il caso di uno dei più recenti campioni del genere, l’americano George Saunders, infaticabile accumulatore di futuri prossimi - o presenti alternativi – tanto leggermente orribili quanto altamente probabili. Ma che ci azzecca, direte voi, quest’altra premessa?
 
E’ che Judy Budnitz scrive racconti brevi, è americana come Saunders, la sua raccolta d’esordio ha un titolo promettente: L’odore afrodisiaco del cloro. E soprattutto si presenta (nello stupendo risvolto di copertina dell’edizione italiana, pubblicata da Alet) con questa dichiarazione programmatica: “Mi piace scrivere cose che non succedono”. Date queste premesse, è lecito aspettarsi fantastici viaggi nell’immaginazione.
E invece l’inizio lascia un po’ freddini. Da dove veniamo è la storia di una giovane incinta che fa di tutto per passare clandestinamente negli Stati Uniti, perché ha saputo che così il bimbo diventerà cittadino americano. Sì, a un certo punto c’è questa cosa strana per cui lei non riesce a entrare e prega che il bimbo non esca, e quello veramente rimane dentro la panza per mesi e poi anni; però alla fine l’anomalia rientra e il racconto prosegue su binari canonici, ancorché strazianti. Così come strazianti sono le dinamiche familiari in Lo sciacquone, che ricordano molto il Frenzen delle Correzioni. E per carità, mica hai detto cacca. Solo che mentre il libro va avanti tra una storia neorealista nella squallida provincia americana (Nadia) e qualche stranezza, ci si inizia a chiedere: ma il fantastico dov’è? E poi magari ci si acquieta, dicendo vabbè avevamo capito male, non si può pretendere che vengano mantenute promesse mai fatte.
 
Poi a un certo punto il libro ha un’impennata. E’ il racconto Salvare la faccia, dalla cui vicenda è preso anche il titolo del libro: una piccola cosa perfetta, un capolavoro assoluto per inventiva e conduzione della storia; fantastico perché ambientato in un altrove così lontano e così possibile, fantastico perché pieno di sorprese e di ragioni che il lettore intuisce senza comprendere fino in fondo. Da lì è un festival d’invenzioni scoppiettanti, una serata di fuochi artificiali: i piazzisti che vengono attirati e chiusi in gabbia da uno strano trio mentre fuori imperversano tempeste di sabbia sulle quali solo i più abili ed equipaggiati riescono a fare surf (Vendite), le apocalissi simulate che non scatenano terrore ma gioia (Preparati), la parabola postmoderna che chiude magnificamente la raccolta (Il paese delle madri).
Il meglio stava verso la fine insomma, e a volerci trovare un difetto, il libro contiene racconti troppo disomogenei, che oscillano tra il minimalismo e la fantascienza. E per di più è mortificato da un errore o una ingenuità nella scelta dell’ordine, ci si dice tornando a sfogliare i primi racconti. O forse no.
 
Perché poi anche in Lo sciacquone c’era quello strano pesce che nuotava nella tazza del cesso, che avrà voluto dire? E la tensione familiare di Ospiti ha un finale astratto, quasi felliniano. D’altro canto, anche molte storie della seconda parte hanno uno sviluppo realistico (L’elefante e il ragazzo, Immersione) pur striato di venature inquietanti. Rileggendo qua e là, insomma, si scopre che i racconti non erano poi così disomogenei: la cifra comune, il fantastico di Judy Budnitz, è che le cose strane non succedono subito, ma si inseriscono in un contesto che pare normale, e poi prendono il sopravvento.
 

La scrittura della Budnitz è ingannatrice, proprio come quelle canzoni belle e ritrose, che non svelano subito i propri tesori. A questi racconti ci si deve abituare, o meglio abbandonare, farsi irretire lentamente e piano piano entrare in sintonia con la loro musica. E allora sì, potrete sentirli suonare.


Tags: Alet, Borges, Dario De Marco, dave eggers, David Foster Wallace, fantascienza, Judy Budnitz, racconto fantastico,
21 Dicembre 2009

Oggetto recensito:

JUDY BUDNITZ, L’ODORE AFRODISIACO DEL CLORO, ALET, P. 283, EURO 15, TRADUZIONE DI MARTINA TESTA

Titolo originale: Nice big american baby (è il mantra che si ripete in testa la mamma migrante del primo racconto)
 
Judy Budnitz: classe 1973, qualche anno fa era in un’antologia di giovani promesse Usa insieme a nomi che vi diranno qualcosa (David Foster Wallace, Rick Moody, Jonathan Lethem, Dave Eggers, George Saunders, Jeffrey Eugenides). A differenza di questi, non ha fatto il botto. Non ancora
 
Prossimamente: l’editrice Alet sta traducendo il suo primo romanzo (If I told you once) e ha i diritti per quello che sta scrivendo adesso
 
Non c’entra (quasi) niente, ma leggete anche: Karen Russell, Il collegio di Santa Lucia per giovinette allevate dai lupi, Elliott. Racconti veramente fantastici
giudizio:



9
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