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ESTERI

Esportiamo la telecrazia

I talent show invadono il mondo islamico: dall’X-Factor afghano alla trasmissione araba dove in gara ci sono addirittura le poesie. Ecco come lo stesso fenomeno che in occidente rappresenta la decadenza della tv e della musica, altrove può essere un’innovazione ai limiti dell’eroismo


di Massimo Balducci


Due bambini camminano nel deserto, in prossimità di un villaggio, con un sacco ed una vanga sulle spalle. Affrettano il passo. “Siamo in ritardo per vedere Afghan Star”, dice uno. “Siamo in ritardo, dobbiamo andare a vedere Afghan Star”, ribadisce l’altro. Afghan Star è il primo talent show nella storia del paese, ed è popolarissimo: praticamente identico nel format ai vari X-Factor e American Idol di nostra conoscenza, ma con il piccolo particolare di svolgersi in uno degli scenari di conflitto più sanguinosi della storia contemporanea.

 
Questa è una delle prime scene di un pluripremiato documentario di Havana Marking, ancora inedito in Italia, ed intitolato anch’esso Afghan Star: che nel raccontare la storia dell’omonimo programma andato in onda da una tv privata di Kabul, fornisce (paradossalmente, dato l’oggetto) un impagabile spaccato della “vita vera” degli Afghani oggi. E così un paese che siamo abituati a conoscere solo come un teatro dell’orrore - per il bollettino dei morti quotidiani, le notizie sul nostro esercito, le ong, Karzai e i servizi segreti - questo Afghanistan insomma “da telegiornale” scompare, e ne scopriamo un altro, sconosciuto ed insospettabile: rappresentato in pieno da quei due bimbi che corrono allegri, dopo una giornata di lavoro nei campi, preoccupati solo di non perdersi l’inizio del loro show preferito. Afghan Star appunto.
 
Devo ammettere che saputo l’argomento del film, la mia prima impressione è stata del tipo “Ecco come abbiamo esportato la nostra civiltà occidentale. Ne valeva proprio la pena, eh”. Ma è proprio per chi, come il sottoscritto, disprezza (e continua a disprezzare, sia chiaro) gli X-Factor e gli Amici di Maria De Filippi, che la visione di questo documentario può essere particolarmente utile per sfrondarsi di dosso qualche spocchioseria salottiera di troppo. E’ noto - tanto per cominciare - che durante l’intero periodo dall’inizio della guerriglia dei Mujaheddien (1979) alla caduta dei Talebani (2001), la musica è stata considerata disdicevole (dai primi) e sacrilega (dai secondi). E non parliamo solo della musica pop, o di quella filo-occidentale, ma di tutta la musica: sotto i Talebani erano un crimine sia ascoltare musica, che guardare la televisione, che ballare: divieti scomparsi solo nel 2004 con le prime elezioni democratiche.
 
Si tratta dunque per questi tre aspetti (come per altri) di un paese praticamente vergine, o meglio, appena uscito da 25 anni di castità forzata. Un po’ come l’Iran - sulla cui scena musicale giovanile è uscito proprio ieri in Italia il bellissimo I Gatti Persiani di Bahman Ghobadi - ma ovviamente, l’Afghanistan è un caso ancora più estremo; e Afghan Star rappresenta in un certo senso l’inevitabile colossale sbronza dopo un’era di integrale proibizionismo. 
 
Eppure, la sbronza della modernità non riesce a cancellare un’identità culturale che rimane fortissima. Nonostante il “contenitore” del talent show sia impacchettato bello e pronto dall’Occidente, infatti, il suo “contenuto” - costituito dai concorrenti alla vittoria finale e dalle loro canzoni - ha ben poco di occidentale. La “afghanità” di queste musiche è evidente, sia per la lingua utilizzata che per le melodie, mentre l’attitudine pop resta in genere limitata, e confinata per lo più agli arrangiamenti. Lo spiazzamento che ne può derivare per uno spettatore europeo fa un effetto quasi comico, ma dà anche la misura della sfida culturale che i partecipanti affrontano: ed in tale caso c’è molto meno da ridere, perché in una società a dir poco bigotta come questa, stanno tutti rischiando la vita. Afghan Star è lo strumento che un’intera nuova generazione post-fondamentalista del paese sta utilizzando per affermare la propria esistenza; e il conduttore-creatore dello show, un ragazzo che ai tempi del regime si guadagnava da vivere riparando clandestinamente apparecchi televisivi nel suo scantinato, sintetizza così il senso dell’intera operazione: “Voglio spostare il popolo dai fucili alla musica”. 
 
Noi magari possiamo anche dirlo, che il talent show non è la trasposizione in ambito artistico della democrazia, ma rappresenta anzi la sua degenerazione populista: perché quando vengono meno le figure di mediazione (discografici, agenti, critici etc.) il successo diventa sempre ancora più una lotteria irrazionale, volubile e senza senso. Ma questo appunto possiamo dirlo noi occidentali, che stiamo lentamente scivolando da un sistema maturo - e forse fin troppo maturo, anzi ormai marcio e corrotto - verso l’egemonia dei televoti. Ma il ragionamento va completamente rovesciato quando il talent show diventa la prima boccata di (ancora acerbo) potere per un popolo che finora non aveva mai avuto l’impressione di contare qualcosa. Ad un certo punto del film, due intervistati osservano che Afghan Star è per questo paese il primo vero contatto con la democrazia - ben più delle elezioni politiche - e se non proprio “democrazia” in senso stretto, è certamente vero che il programma ha suscitato una passione e partecipazione attiva senza precedenti: rappresentando perciò una specie di palestra, di educazione a quella libertà che ancora attende di realizzarsi in Afghanistan.
 
Ancor più significativamente, in un paese le cui istituzioni (a parte la capitale) esistono solo sulla carta, il talent show agisce come un fattore di unificazione nazionale. I concorrenti provengono da tutte le principali città afghane, e perfino le differenze etniche tendono a sfumare: per cui non è affatto raro che spettatori Pashtun facciano il tifo per un cantante curdo (e ciò sarebbe anche normale, se non fosse che questi gruppi hanno passato gli ultimi decenni scannandosi gli uni con gli altri). In compenso, scopriamo che non tutti i tabù ereditati dall’Islam fondamentalista sono scomparsi dalla società: solo tre ad esempio sono le donne concorrenti, e restano quasi sempre velate. L’unica che ha osato trasgredire è Setara, la più giovane, la più carina e certamente la più ambiziosa. Viene eliminata (con vergogna) dallo show quando si spinge a danzare durante la sua esibizione; biasimata per questo dai suoi stessi colleghi, perché “questa è una società islamica, e ballare non è permesso”. Inoltre si è tolta il velo, e questo ne metterà ancor più a repentaglio la stessa vita. Le riprese mostrano anche gli abitanti di Herat (la città da cui proviene Setara) inferociti con lei, perché convinti che il suo comportamento abbia gettato tutti loro in una cattiva luce.
 
Non è certo il talent show in quanto tale, dunque, a rendere di per sé un paese più moderno ed aperto. Il contenitore (importato dall’estero) ed il contenuto (locale) non si mischiano automaticamente, però proprio il caso afghano dimostra come siano reciprocamente influenzabili. Ed Afghan Star non è nemmeno un fenomeno così isolato: qualche giorno fa si è parlato della storia di The Million’s Poet, che è anch’esso un talent show di enorme popolarità, trasmesso da una tv di Abu Dhabi in tutti i paesi del Golfo. Con la particolarità - non proprio trascurabile - che l’oggetto del “talento” in questo caso non sono canzonette, ma poesie. 
 
C’è ancora qui un’apparente contraddizione tra contenitori e contenuti, che però è tale soltanto per noi occidentali: abituati da un secolo ad avere seppellito quella civiltà della parola considerata ormai incompatibile con i mezzi di comunicazione di massa. L’esempio dei talent show islamici potrebbe allora, forse, farci venire il dubbio che non sia per forza l’immagine a dover uscire vincitrice dalla sfida della modernità.


Tags: afghan star, afghanistan, amici, Bahman Ghobadi, democrazia, Havana Marking, I Gatti Persiani, maria de filippi, Massimo Balducci, morgan, talent show, taliban, The Million’s Poet, x-factor,
17 Aprile 2010


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