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FILM

Il vecchio Checco

E' ormai un veterano del botteghino (che puntualmente sbanca). Zalone, che con Sole a catinelle è al suo terzo film, ha il pregio far ridere senza nascondere il passare degli anni. E addirittura proponendo implicitamente una tesi opposta a quella di un certo Milan Kundera


di Marinella Doriguzzi Bozzo


In questo ventennio italiano in cui l'oggi è identico al giorno prima come al giorno dopo, si annida la trappola sospesa di una cronaca che non riesce a farsi storia, secondo un presente sempre uguale che tuttavia non ci impedisce - beffa aggiuntiva - di invecchiare sterilmente. A differenza delle maschere della commedia dell'arte che mettono in scena tipi e stili codificati, perciò immarcescibili come tutti gli assiomi esemplificativi rappresi nel tempo. Premessa forse un po' pomposa, utile tuttavia a recensire diversamente Sole a catinelle, terza fatica cinematografica di Checco Zalone. Il quale Checco, non essendo l'italiano multiformemente medio di Sordi (intendendo per medietà lo sventagliamento di  vizi e inclinazioni) bensì il simulacro di una proiezione zaloniana o zalonesca che reagisce ad una sotto-cultura eminentemente televisiva, ha almeno il buon gusto di sfiorire fisicamente con noi, pur nella sua peculiarità fisiognomica.

 
Eccolo dunque in quell'età intermedia che passa attraverso un ispessimento propedeutico alla ruga, accantonata la cassetta degli attrezzi del corteggiamento in favore del baule famigliare, quindi non solo marito e padre, ma anche lavoratore dimissionario e irresponsabile con cupidigie imprenditoriali: venditore porta a porta di aspirapolveri. L'innesco della vicenda risale a una sua incauta promessa nei confronti del figlio prepubere, che lo porta ad assumersi l'onere di una vacanza-premio a fronte di una pagella strepitosa, proprio mentre la moglie lo ha lasciato e non dispone del becco di un quattrino. Inutile dire che la storia è un pretesto per provocare e far reagire il personaggio, incastrandolo in un contesto che è più apologo che maniera, con il pregio di mettere storicamente in  rilievo il passaggio da un'epoca di capitalismo industriale a un periodo di capitalismo finanziario e speculativo: la società e le istituzioni si svuotano di contenuti, diventano inutilizzabili, assumono i connotati del si salvi chi può attraverso il fai da te identitario, tra edonismo, sgomitamenti, scorciatoie, soprusi, comparsate sui media.
  
E se forzare la lettura sociologica sarebbe un errore, altrettanto sbagliato risulta confondere i filmini di Zalone con un intrattenimento per poveri di spirito, come ci è stato rimproverato nella precedente recensione di Ma che bella giornata che può sovrapporsi a questa in quanto i titoli hanno quasi gli stessi pregi e difetti, essendo forme espressive individuali prossime all'autofiction sublimata di un autore-maschera. Maschera che tuttavia, a differenza delle altre, avanza umanamente nel tempo secondo una propria coerente traiettoria, mentre il contesto rimane sostanzialmente identico. La povertà di spirito non risiede nell'apprezzare Checco Zalone, ma nel vedere e nell'apprezzare solo Checco Zalone, che tuttavia ci rappresenta meglio dei tanti prodotti italici di genere che ricorrono sugli schermi, di cui tacciamo i titoli non per carità di patria, ma perché l'elenco sarebbe troppo lungo, e si finirebbe col fare torto a qualcuno.
 
Che cosa consente a Zalone di permetterci novanta minuti lievi nell'accezione non ignobile del termine, senza peraltro nulla accantonare delle nostre amarezze epocali, ridendo e sorridendo? Probabilmente alcuni pregi peculiari: la calibrazione mimica, l'attenzione filologica al linguaggio, la tempistica comica, la strutturazione ibrida di gag e di canzoni che tuttavia non si configurano come cuciture di episodi, e il richiamo umano di contraddizioni caratteriali che si elidono a vicenda.
  
Guardandolo, è un comunissimo non più ragazzo che tuttavia riesce ad imprimere al proprio fisico torsioni posturali e espressive con enfasi credibili ed equilibrismi millimetrici, ogni volta capaci di riassumere un'intenzione o una situazione e nel contempo di strizzare l'occhio in termini di auto-sfottimento; il linguaggio è addirittura professoralmente scempiato, secondo un'attenta presa in giro dell'aulicità masticata insieme al non senso, tanto da assurgere ad una forma di riconoscibilissima gergalità iniziatica per tutti. Ci si aspetta  una mossa o una parola, e queste a volte puntualmente arrivano, così come altrettanto fulmineamente ci spiazzano, sicché prevedibile e imprevedibile concorrono entrambi all'effetto farsesco, nell'ambito di una continuità che diventa quasi una forma di riconoscimento affettivo.
 
Le  storie sono fragili, ma godono dell'ipnotismo delle televendite mitologiche, e sono funzionali al suo protagonismo, tanto che le ambientazioni scenografiche, i comprimari e le comparse lo accompagnano con una docilità dimessa che rappresenta un involucro colato su misura. Infine, la sua feroce determinazione scevra di autocensure, eppure quasi inavvertitamente criticissima nei confronti del contesto, genera la stessa pulsione infantile delle favole note, spesso più reali del reale. Insomma, porta a  una forma di dipendenza da iterazione, sulle polarità della iattanza cialtrona e dell'adattabilità patetica. L'assunto dell'ultimo libro di Kundera - La festa dell'insignificanza - sembra girare intorno all'ipotesi che  la nostra epoca è comica perchè ha perduto il senso dell'umorismo. I piccoli spettacoli di Zalone ci fanno pensare per un'ora e mezza al contrario: si sorride benevoli a chi ci fa sorridere, proprio perché la mediocrità della ripetizione comincia ad assumere i connotati della tragedia.


Tags: Checco Zalone, Gennaro Nunziante, Marinella Doriguzzi Bozzo, Milan Kundera, recensione, SOLE A CATINELLE,
04 Novembre 2013

Oggetto recensito:
SOLE A CATINELLE, di Gennaro Nunziante, Italia 2013, 90 minuti
 
giudizio:



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