Ne La Sposa Promessa, la regista israeliana Rama Burshtein racconta le implicazioni di un matrimonio in quel di Tel Aviv. Cultura, religione, morale e una tradizione ancestrale che arriva attraverso il chiacchericcio della gente: è il pesante bagaglio della donna che va all'altare, vista qui da una prospettiva tutta femminile
di Marinella Doriguzzi Bozzo
Ogni religione è nel contempo precetto morale, norma di culto, regola di comportamento e di controllo associativo. Spesso è anche elemento di riferimento, quando non di sovrapposizione, all'interno della legge laica. Ma il cuore, continuamente diviso tra il sacro e l'umano - impropriamente detto profano - come se la cava? Da sempre, e sotto ogni sole, si arrangia e soffre. Tanto più se siamo all'interno di una comunità ebraica contemporanea di strettissima osservanza, che già di per sé costituisce elemento di interesse estetico, etnologico e etologico, a cui si aggiunge l'acume introspettivo di una regista ispirata anche tecnicamente, capace di misurarsi senza parere con il pensiero romanzesco e tutto occidentale di Jane Austen, per la quale ogni buona storia si doveva concludere con una domanda di matrimonio.
Qui di matrimoni ce ne sono più d'uno, eppure il film gode di una delicata forma di suspence, intorno ad un dilemma che trascorre continuamente dalla ragion pratica ai sentimenti. Non solo dei due possibili promessi, ma anche del nucleo che ruota loro intorno, con gli amori, i dolori, gli egoismi, le generosità, le condivisioni, le pressioni: perché lo stato di marito, ma soprattutto di moglie, non è soltanto un fatto privato, ma una condizione eminentemente civile, soggetta all'osservazione e al commento di tutti, in quanto degno coronamento fisiologico e pubblico di ogni identità personale.
L'esile trama, che dovrebbe unire in linea retta due semplici punti all'interno di una geometria poligonale di relazioni, si snoda invece come un sottile arabesco, le cui sinuosità vanno taciute in quanto parte intrinseca dell'interesse del film. Che comincia con una affollata celebrazione del Purim e prosegue tra le domesticità sociali e individuali di interni che assomigliano curiosamente ai quadri di Wilhelm Hammershoi: figure singole assorte sullo sfondo di ambienti di rarefatto silenzio; momenti comuni inquadrati come dipinti nordici del quotidiano, sempre a sottolineare le emozioni dei singoli dentro una comunità tanto rigida quanto comprensiva, che si fa compulsivamente gli affari degli altri; dialoghi punteggiati da lunghe pause, a significare quei percorsi della mente e quegli ingorghi del cuore che non sono facilmente esprimibili con le parole; limpidi rapporti parentali fra uomini e donne, eppure complicati da risvolti quasi incestuosi, tipici delle collettività chiuse; confronti fra esperienza e inesperienza, gioventù e maturità; sessualità mai esplicita, eppure tanto più prepotentemente erotica in quanto affidata solo al pensiero...
Si potrebbe morire di noia, invece questo è uno dei pochi film in grado di dare vivacità alla lentezza. Intanto, per l'ambientazione scenografica, la scelta degli attori e dei costumi (d'una prorompente modernità datata quelli delle donne, tradizionalmente neri tra le parentesi dei boccoli ai lati delle guance quelli degli uomini) e la costruzione sapiente tra quattro pareti, ma priva di teatralità, a rappresentare la dicotomia dei doveri e delle speranze. E poi per il modo di articolare il racconto e per la capacità di lasciare agli spettatori il completamento del percorso spirituale degli interpreti: perché tutto è chiaro e nel contempo ambiguamente sul filo del dubbio,con vasti silenzi da riempire.
A cui si aggiunge un modo di filmare nitido e funzionale, corroborato da una degna fotografia: la regista ed il suo staff mantengono infatti un che di sapientemente amatoriale, come il tremolio dei filmini famigliari; e, parallelamente, sono in grado di rappresentare l'antichità ancestrale e la modernità della storia, colorandola ora di chiaro, ora di scuro. Sempre calcando sugli effetti della sovraesposizione, della saturazione e del contrasto, con particolare attenzione alla definizione e ai punti di ombra e di luce, continuamente giocati sull'alternanza di inquadrature verticali e orizzontali.
Un film espertamente femminile, con una profonda comprensione della mascolinità sia dominante che necessitante, giocato perfettamente sull'esotismo di una Tel Aviv moderna e insieme antichissima, con quella caratteristica nota ebraica che sta spesso tra il drammatico e l'ironico, come nei romanzi dei grandi quali Isaac Bashevic Singer (si veda per esempio La famiglia Moskat, libro depurato dalle lunghe complessità dell'affresco, qui distillate in una normalità breve, fra il nobile e il prosaico).
Un'opera meritatamente in concorso per l' Oscar 2013 al miglior film straniero, da vedere e da gustare anche nei dettagli, compreso il duplice finale, che non è una goffaggine, bensì il degno prosieguo della cifra sentimentale del film: si poteva facilmente chiudere sulla figura di lei e invece viene aggiunta un'ultima inquadratura significante, perché non si tratta di un epilogo, ma di una premessa. La vera storia deve ancora cominciare, e non ne conosceremo mai gli esiti.
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La Sposa Promessa, di Rama Burshtein, Israele 2012, 90 m
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