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FILM

Questo non è Tim Burton

In Alice in Wonderland, il colossal prodotto dalla Disney, non si vede la mano del regista di Big Fish


di Marco D'Egidio


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“Niente è impossibile”, imparerà Alice durante il suo lungo fantastico viaggio nel Paese delle Meraviglie. Neppure che Tim Burton si dimentichi di apporre il timbro d’autore su una sua opera.
Perché vedendo Alice in Wonderland si ha l’impressione di essere di fronte a un film in cui la più genuina poetica burtoniana – una perfetta sintesi di magia, incantamento, leggerezza, musicale armonia dell’immaginazione - viene ingabbiata e compressa da una sorta di “dover essere” rigido e frenetico. E’ come se il Tim Burton che conosciamo, quello de La sposa cadavere o di Edward mani di forbice (solo per dire due fra le sue migliori creazioni), non sia stato libero, o non sia riuscito, a dare forma a un mondo pienamente “suo”, di quelli dove allegria e commozione, divertimento e sentimento si fondono inscindibilmente. 
   
Forse le pagine di Lewis Carroll hanno rappresentato più un vincolo che una piattaforma da cui spiccare il balzo della fantasia, anche se La fabbrica di cioccolato di Roald Dahl induce a pensare che Tim Burton non si faccia mettere in soggezione dai classici della letteratura. Non è neppure una questione di contenuto, poiché la storia è tipicamente burtoniana. Alice, infatti, è una ragazza alla quale il padre ripeteva sempre che nulla è impossibile, e che tutti i migliori sono matti. Quando, nel giorno del suo fidanzamento (combinato) con un bamboccio lord, scappa dalla cerimonia per seguire il tintinnio dell’orologio del Bianconiglio, Alice non sa ancora che cadrà nella tana dei suoi sogni, che parteciperà a una fantastica avventura in un mondo sottosopra in cui gli animali parlano, i gatti si dissolvono come fumo e il vocabolario è pieno di giochi di parole. Qui, finalmente protagonista del suo sogno ricorrente da quando era bambina, Alice imparerà a prendere in mano la sua vita, perché non si vive per fare un piacere ad altri e nulla è davvero impossibile. In questo riconoscimento del valore dell’insegnamento paterno è la conclusione del percorso di formazione di Alice, destinata a divenire (nel mondo vero, s’intende) un’imprenditrice di successo grazie a quel “think different” che i simpatici personaggi di Wonderland, a partire dal Cappellaio Matto, le hanno insegnato. 
 
alice_nel_paese_delle_meraviglie.jpgNella storia sono quindi presenti tutti gli elementi del Burton-pensiero, come il rifugio in un universo onirico, se non più vero, almeno più libero e sincero del mondo reale (basti pensare a Big Fish), la centralità del diverso, l’esaltazione del potere quasi salvifico dell’immaginazione e l’elogio della follia creativa. Non è una questione di contenuto, se Alice in Wonderland non è “pienamente” un film di Tim Burton. Il problema è invece estetico. Tim Burton, infatti, non è solo un grande regista: è un artista consacrato con una mostra nel tempio dell’arte contemporanea, il MoMA di New York. Ogni suo film è il prodotto (anche) di una ricerca figurativa sui personaggi e le scenografie curata nei minimi dettagli, in cui la mano, l’agile tratto grafico del Maestro di Burbank (disegnatore alla Disney nei primi anni Ottanta) costituisce uno stile inconfondibile. In Alice in Wonderland, che pure è un tripudio di colori, paesaggi fantastici e personaggi irresistibili, a mancare è la mano di Tim Burton, mentre è evidente il complementare accentramento della potestà figurativa in seno all’impersonale computer, con il quale anche la matita più ispirata tende a un fantasy ben fatto, ma sostanzialmente anonimo.
 
Si conferma in questo modo, dopo Avatar, la dittatura del 3D, che lungi dall’essere una rivoluzione del modo di intendere il cinema sta tuttavia influenzando il modo di fare cinema. Un cinema di fuochi artificiali, troppo veloce, eccessivo, teso a strappare un’espressione di meraviglia, non la vera e profonda emozione dello spettatore. Se al computer (la cui traccia, checché se ne dica, impatta pesantemente sulla natura di un’opera) è delegato il compito di “fare mondi”, da ciò consegue un generale livellamento dell’offerta artistica di cinema, fino a una lenta ma inesorabile scomparsa delle firme d’autore di cui Tim Burton era (è) forse la più raffinata. Le grandi major di Hollywood fanno a gara di spettacolo, e siamo solo all’inizio. Meglio tenersi gli occhiali stereoscopici a portata di mano.



Tags: 3d, alice in wonderland, big fish, computer, edward mani di forbice, la fabbrica di cioccolato, la sposa cadavere, lewis carroll, Marco D'Egidio, tim burton,
05 Marzo 2010

Oggetto recensito:

ALICE IN WONDERLAND, DI TIM BURTON, USA 2010, 108 M.

giudizio:



6.525
Media: 6.5 (2 voti)

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