Il sociologo e scrittore mette alla berlina colleghi romanzieri di ogni specie, dai campioni di vendite agli improvvisati giù fino a quelli incensati da premi e targhe di sorta. L'importo della ferita e altre storie va a caccia del refuso ma quasi sempre si trova di fronte un errore "di sistema". Ma questa censura da penna rossa serve davvero?
di Giuseppe De Marco
Alzi la mano chi leggendo un libro non si é mai imbattuto in un refuso, un errore o anche uno strafalcione di quelli seri. E la tenga alzata chi, di fronte allo sfondone, non abbia provato un mix di offeso risentimento (uno Scrittore che non sa scrivere?) e malcelato compiacimento per aver scoperto l'inghippo (sono dunque più bravo dello Scrittore?). Bene. Giù le mani adesso, perché serviranno ad aprire questo libro di Pippo Russo, sociologo e scrittore anch'egli, che di sfondoni, refusi e affini è diventato una sorta di collezionista.
Già qualche anno fa si era cimentato a raccogliere i vizi verbali dei principali commentatori sportivi (Pallonate: un libro che raccoglieva le puntate dell'omonima rubrica pubblicata sulle colonne di Manifesto,Unità e Fatto Quotidiano). Stavolta punta più in alto e mette sotto la sua lente alcuni dei principali best seller delle passate stagioni. Scritti da autori verso i cui titoli, è bene chiarirlo subito, Russo nutre più o meno la stessa ammirazione che potrebbe provare Umberto Eco leggendo la lista della spesa scritta al buio da una vecchia zia paralitica.
Ciò nondimeno il nostro dà prova di indiscutibile abnegazione, dimostrando di aver compulsato pagina per pagina l'opera omnia degli scrutinati. Sette in tutto, divisi in tre categorie che sono tutto un programma. Nella sezione "I libro-panettonisti" trovano posto Giorgio Faletti, Fabio Volo e Federico Moccia. Seguono "I narratori improvvisati" Pupo e Giuliano Sangiorgi. Chiudono la rassegna "I premiati", ovvero Antonio Scurati e Alessandro Piperno.
Autori che più diversi non si potrebbe, ma in realtà accomunati da una certa tendenza all'imprecisione verbale, che talvolta si fa pacchiana. La rassegna è ampia e circostanziata. Si va dalle discordanze grammaticali alle declinazioni verbali errate, dalla punteggiatura schizofrenica agli sfondoni con la consecutio temporum. Passando per iperboli stucchevoli e inutili ripetizioni, sintassi aggrovigliate o neologismi impossibili. Errori dei quali, va detto, in molti casi andrebbero incolpati gli editor e i correttori di bozze più ancora che gli autori stessi.
Faletti è di tutti forse il più fantasioso, grazie alla sua originale invenzione di inserire periodi che paiono malamente tradotti dall'inglese-americano. A partire proprio da quell'improbabile "importo della ferita", a cui si fa riferimento nel libro Niente di vero tranne gli occhi ("L'uomo, con un gesto istintivo, sollevò la manica della tuta per controllare l’importo della ferita"). Un'espressione - "import" - che anche in America farebbe fatica a trovare posto in un romanzo, perché di stampo prettamente giuridico, ma che certamente in un racconto italiano suona davvero stonata. Né si tratta di un errore isolato, visto che il vizio di riportare frasi che sembrano uscite dal traduttore istantaneo di Google si ripete un numero di volte a dir poco sospetto (e ovviamente non manca chi ha avanzato il classico dubbio che dietro all'autore ci sia un ghost writer, americano ovviamente). Chi volesse farsi due risate può dare uno sguardo all'approfondita rassegna di citazioni, del resto in parte già segnalate anche da altri commentatori.
Ad ogni modo, se il giudizio sull'opera di Faletti é severo, quello sui testi di Fabio Volo e Federico Moccia si fa draconiano. Ai tanti errori e refusi sintattici e grammaticali, infatti, si aggiunge per loro l'aggravante dei "futili motivi". Nel senso che i loro libri vengono giudicati talmente miseri di contenuti da chiedersi quale motivo abbia spinto i rispettivi autori a scriverli e soprattutto gli editori a pubblicarli (per non parlare ovviamente dei lettori che li leggono).
Né vale, secondo Russo, la classica obiezione che si tratta di autori letti da adolescenti per i quali l'alternativa non è certo l'ultimo Chomsky ma tutt'al più la PlayStation. La forma è sostanza, fa capire l'autore, che oltretutto sottolinea come le uniche lezioni di vita che "volette" e "mocciosi" possano ricavare dalle loro letture siano, rispettivamente, l'esaltazione del binomio "sesso&cesso" e l'apologia di un coattume sciatto e violento.
La situazione peraltro non cambia molto proseguendo in questa carrellata degli errori che, dopo la tripletta iniziale, affronta due esponenti di un genere in crescente ascesa: quello dei famosi "prestati" alla letteratura. Enzo Ghinazzi, in arte Pupo, e Giuliano Sangiorgi, voce dei Negramaro, sono due tra i tanti che si sono cimentati con la letteratura con risultati, manco a dirlo, terrificanti, almeno a giudicare dai giudizi sprezzanti di Russo. Del romanzo d'esordio di Pupo si dice che "il ritmo della narrazione è quello mozzafiato di quando seguivate vostra nonna seduta in poltrona e impegnata in estenuanti punti-croce". Quanto al povero Sangiorgi, l'essere il frontman di uno dei gruppi musicali più amati in Italia non lo preserva da una stroncatura netta del suo primo romanzo Lo spacciatore di carne. A Russo proprio non va giù il tentativo fin troppo esplicito di presentarsi come "un poeta maledetto o un bukowskiano d’ultima generazione". La ricerca affannosa di un registro "pulp", lo conduce a risultati "im-pulp-pabili".
Fin qui però, la facile obiezione sarebbe quella che Russo spari sulla Croce Rossa. Diciamo la verità, nessuno si aspetterebbe dagli autori qui esaminati un vocabolario degno della Accademia della Crusca. Qualcosa di più invece sarebbe lecito attendersi dagli ultimi due, quelli della categoria "premiati". Ma anche qui le cose non è che vadano molto meglio, alla luce del piglio severo dell'esaminatore. I libri di Scurati, premio Campiello e finalista Strega, sono secondo Russo "una pretenziosa accozzaglia di finzione, cronaca, analisi sociologica che si trasforma in pippone". Per di più, la foga di dimostrarsi uomo di lettere e di cultura non gli impedisce di incorrere in qualche refuso storico che a tratti si fa imbarazzante sfondone.
Non va meglio, infine, ad Alessandro Piperno: il contenuto dei suoi pluripremiati libri (Viareggio, Strega e Campiello) "può essere ridotto alla formula Saghe & Seghe Familiari". Il motivo é presto detto, al solito senza badare troppo ai formalismi: "I protagonisti principali delle saghe/seghe pipernesche sono maschi alto borghesi smidollati e mammoni, dotati di zero spirito pratico, ossessionati da un edonismo di maniera e da turbe sessuali che ne fanno indifferentemente erotomani compulsivi e/o impotenti cicisbei condannati alla frustrata intenzione". Insomma, è chiaro che secondo l'autore le patrie lettere navigano in acque assai agitate, almeno dalla parte dei settori best-seller e affini.
Qualche critica però, anche il puntiglioso Russo se la dovrà pur prendere. A cominciare proprio dall'assunto di base (riconosciuto peraltro dallo stesso autore): che cioè la letteratura, in qualsiasi veste e al pari di qualsiasi altra forma d'arte, va giudicata anzitutto dal suo principale fruitore. Mettersi a sparare ad alzo zero su Fabio Volo o Federico Moccia è un po' come passare al setaccio i film di Vanzina per scoprire che sono mediocri e osceni. Cui prodest? Quelli che amano Moccia o Vanzina non smetteranno certo di amarli perché producono opere di scarso valore artistico, ché chiaramente il loro obiettivo, piaccia o meno, é altro.
In più, c'è da dire che lo sterminato elenco di errori che Russo fedelmente riporta per ciascun titolo esaminato rende questo libro a conti fatti una galleria degli orrori. E a dirla tutta, se non fosse intervallata dai sarcastici interventi dell'autore, finirebbe per ridursi ad una noia mortale.
Dunque, caro Russo, perché? Perché sobbarcarsi (e sobbarcarci) di una così minuziosa sequela di brutture, a beneficio di lettori che con ogni probabilità questi libri non li hanno mai letti e non li leggeranno mai? Certo c'è la significativa eccezione dei "premiati". Ma nel loro caso la critica verte principalmente sui contenuti più che sullo stile, e dunque si torna alla questione della soggettività del giudizio. Insomma, per farla breve, la critica migliore in questi casi probabilmente la si fa direttamente in libreria.
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Pippo Russo, L'importo della ferita e altre storie, edizioni clichy 2013, 300 p, 15 euro
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