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MOSTRA

Al cinema? Tanto di cappello

Dalla bombetta di Charlot a quella dei drughi di Arancia Meccanica, passando per le visiere basse dei gangster movies e l'immancabile accompagnamento al trench di Bogart. A Milano grazie alla Fondazione Borsalino un originale percorso sui copricapi più importanti della settima arte: per scoprire che cosa si sono messi in testa i divi di Hollywood


di Anna Colafiglio


Il primo impatto ha un retrogusto straniante: la maggior parte dei visitatori che gravitano negli spazi di questa mostra, indossa un cappello. Quello dello spettatore che, inconsapevolmente, diviene parte integrante di un’esposizione, è già di per sé un evento che sorprende piacevolmente e fa sorridere.
 
Il cinema con il cappello. Borsalino e altre storie, è una mostra ambiziosa, dedicata a quel singolare binomio che intreccia il cinema alla storia del costume; un intreccio all’interno del quale quello del cappello diviene inaspettatamente un complemento imprescindibile e caratterizzante. Fortemente connotato dal punto di vista simbolico, infatti, il cappello non è un accessorio qualunque: capace di creare personaggi e icone, è sempre stato il mezzo preferenziale per determinare e definire (o, perché no, occultare) le identità dei soggetti rappresentati, le loro caratteristiche e peculiarità.
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Ad aprire la mostra, un grande cilindro multimediale sulle cui pareti si accavallano immagini e storie, in un montaggio che rievoca tutti “i gesti del cappello” e le diverse valenze che essi assumono a seconda del contesto in cui vanno ad inserirsi. Dalla malinconia del viscontiano Morte a Venezia, passando per le esuberanti atmosfere che rivivono in Cabaret di Bob Fosse, giungiamo all’emblematica scena della scelta del cappello ne Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, apologia della mutevole identità di un Peter Falk celato sotto le falde dei copricapi che indossa. 
 
Si prosegue in un corridoio di sale divise per nuclei tematici: ognuna di esse ospita un montaggio che lascia parlare le immagini, esplicative delle numerosissime valenze semiotiche che il cappello può assumere. È il cappello inquietante di M il mostro di Dusseldorf, che sovrasta l’ombra dell’assassino in agguato; è quello comico di Charlot che, ne Il Pellegrino, arriva a mangiarselo cosparso di panna; c’è il cappello seducente e androgino della Marlene Dietrich de L’Angelo Azzurro, vezzo sottilmente erotico e intrigante; e poi ancora, il cappello eccentrico che può essere mascheramento o rivelazione, marchio di femminilità per Jack Lemmon e Tony Curtis in A qualcuno piace caldo, tratto caratterizzante per il Willy Wonka de La fabbrica di cioccolato. Ma ancora, come faremmo a immaginare i Blues Brothers senza i loro inconfondibili cappelli, divenuti, dopotutto, un trend? E non sarebbe immediatamente riconoscibile Alex "Drugo" senza la sua bombetta, così come Humphrey Bogart o la Audrey Hepburn di My Fair Lady (qui sopra)
 
Gli anni ’30 e ’40 vedono il trionfo del cappello “alla Borsalino”, modello che caratterizza il decoro di una società borghese in ascesa; “saccheggiato” dai gangster, il simbolo borghese per antonomasia diviene mezzo per l’acquisizione di un’aura di rispettabilità e uno stato di integrazione sociale apparente (splendido l’uso che ne fa Alain Delon in Frank Costello faccia d’angelo). Deludente, nonostante l’impatto iniziale, l’installazione multimediale dello studio N!03: folate di lettere si compongono tra loro sino a formare i nomi di varie fogge di cappelli che, trasportati dal vento, volteggiano sugli schermi.
 
Cappelli non solo indossati, dunque: un grande schermo ci accoglie con immagini di cappelli volanti di ogni specie, prese in prestito da pellicole che ne sfruttano il valore simbolico intrinseco (da Mary Poppins al più recente Gangs of New York). Ed è proprio una pioggia di cappelli sospesi ad aprire il percorso sulla casa Borsalino, la quale, con il product placement delle omonime pellicole (Borsalino, 1970 e Borsalino & Co, 1974), si è guadagnata un legame indissolubile con il cinema e le sue icone. Gran finale, dunque, con i due film cult di Jacques Deray, con Alain Delon e Jean Paul Belmondo (sotto a sinistra), che riprendono il tema del cappello Borsalino come emblema del gusto degli anni Trenta; elemento simbolico di cui i due gangster si appropriano, facendosi portatori di un’eleganza ostentata e vagamente dandy.
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Interessantissimo, inoltre, l’inedito documentario industriale realizzato nel 1912 da Luca Comerio (La fabbricazione dei cappelli Borsalino), qui per la prima volta fruibile nella sua versione integrale e restaurata. Attraverso il modernissimo mezzo dell’installazione video, assistiamo quindi a una gran carrellata di cappelli: inusuale fil rouge di una storia del cinema, guardata da una nuova angolazione che, sorprendentemente, riesce a racchiudere in sé i più grandi capolavori della settima arte. Il cinema visto attraverso un cappello, che si fa elemento drammaturgico prima ancora che vezzo di costume.



Tags: Anna Colafiglio, Borsalino, cappelli, copricapo, Gianni Canova, Humphrey Bogart, Jean Paul Belmondo, Marlene Dietrich, storia del cinema,
02 Marzo 2011

Oggetto recensito:

Il cinema con il cappello. Borsalino e altre storie, Triennale di Milano, viale Alemagna 6

Fino al: 20 marzo 2011; la mostra sarà itinerante, ma non sono ancora note le prossime città che la ospiteranno.
Ideazione: Elisa Fulco (Fondazione Borsalino)
Curatore: Gianni Canova
Allestimento: Masoero – Tondo Architetti Associati
Orari: dal martedì alla domenica dalle 10.30 alle 20.30; giovedì e venerdì dalle 10.30 alle 23; lunedì chiuso.
Ingresso: libero

giudizio:



8.109
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