Un ritrovo per uomini omosessuali, svestiti e solitari, attorno alle rive di un placido specchio d'acqua. Due di loro si incontrano e si innamorano, ma uno ha già visto troppo. Ne Lo sconosciuto del lago il regista francese doppia lo sguardo dello spettatore e compone il proprio stile come un vojeur privo di malizia
di Marinella Doriguzzi Bozzo
L'unità di tempo, di luogo e di azione è addirittura esasperata, secondo la canonizzazione aristotelica che esclude ogni atto che non si svolga direttamente sulla scena: un lago anonimo di un'estate scialba, connotata più dalla sospensione del lavoro che non dalla veste della natura; una battigia di sassi che costringe uomini discinti a dotarsi almeno delle scarpe; un bosco che un non botanico definirebbe erratamente "di ligustri", solo per approfittare del suono ispido del termine; un parcheggio fra gli alberi e la sabbia a cui si approssimano automobili caute, in caccia come predatori, a far da contrappeso reale alle chiacchiere da spiaggia intorno ai leggendari pesci siluro, che invece rimangono una versione povera del mostro di Lochness; una colonna sonora che se c'è non si percepisce, sostituita da un vento artificiale che increspa volubilmente le foglie, per incrementare con il suo fruscio il precipitare di un'inquietudine.
Perché di inquietudine certamente si tratta, sotto la specie di un ritrovo per gay solitari che aspettano, parlano, chiedono, respingono, accettano per il piacere fuggevole di un asetticamente dettagliato brancicare, tentati sia dalla ripetizione meramente fisica, sia dalla promessa di rapporti che s'insinuano ora guardinghi ora brucianti nelle pieghe delle loro stesse nudità, escludendo comunque ogni allusione ad una esistenza fatta di possibili altrove, che devono rimanere fuori dal perimetro geografico convenuto.
Nell'immutabilità scandita proprio dalle stesse ambientazioni iterative, sezionate in modo maniacale da pomeriggi tutti uguali che si aprono e si chiudono con la luce e con il buio del significante parcheggio, un giovane precisato solo nel nome e nei lombi incontra un goffo etero solitario e un omossesuale fedifrago e tentatore (un sosia di Freddie Mercury ma senza mutande) e se ne innamora nonostante abbia assistito non visto ad una scena dirimente, che lentissimamente si insinua e si svolge come un apparente giallo, sino all'enigmatico finale sospeso.
Allusivo a partire dal titolo - nel senso che lo sconosciuto del lago è anche trino, e che tutte le altre comparse partecipano dello stesso anonimato - il film rallenta e amplifica le immagini con una fissità diretta che sembra attingere dall'Empire di Andy Warhol (1964) e le innesta intorno ad un unico punto di vista, quello dello spettatore che guarda un regista che a sua volta osserva i segmenti delle scene di fronte, come ne La finestra sul cortile di Hitchcock. Aggiungendo, per un breve momento, anche qualche suggestione chabroliana, che richiama di striscio Il tagliagole (1970).
E' evidente che, nonostante il pruriginoso divieto ai minori di diciotto anni e le mentite spoglie
Ne risulta uno spettacolo promiscuo come gli approcci fisici ripresi con una naturalezza anatomica priva di qualsiasi intento voyeuristico, che per quasi tutta la sua durata può arrivare a generare anche una forma di rigetto non da noia, ma da estremizzazione dei parametri espressivi scelti, e che tuttavia trattiene lo spettatore con un suo lungo, singolarissimo fremito sotto pelle, unito a piccoli dettagli magistrali. Non si dice molto, e anche i dialoghi rispecchiano perfettamente i registri adottati, ma sono tuttavia in francese, con traduzioni sovrimpresse bianco su chiaro, quasi a addensare involontariamente l'ossimorico imperativo di impliciti e di espliciti del film.
Si rappresenta e si allude, con un'enfasi sulla ossessività compulsiva e quasi mortuaria propria di tutte le comunità chiuse, indipendentemente dal loro orientamento sessuale, tanto i linguaggi dei cuori e dei corpi sono, ridotti all'essenziale, sempre gli stessi. Come sempre le stesse sono le prigionie delle coscienze, divise tra il bene e il male, la carne e i sentimenti, la finitezza irrimediabile degli atti come delle vite. Premiato per la miglior regia nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes 2013, Lo sconosciuto del lago sembra proseguire la tendenza dei pur diversi film sin qui recensiti durante questo riavvio di stagione cinematografica: originali, abili, suggestivi, in bilico fra storia, poesia, racconto, parabola e tuttavia complessivamente imperfetti, più promessa di viaggio che effettivo approdo.
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Lo sconosciuto del lago, di Alain Guirodie, Francia 2013, 93 m
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