E' inutile opporsi al caos: questa la morale di A serious man, ultima fatica di Ethan e Joel Coen, in cui una distruttiva serie di eventi sconvolge la vita di un matematico ebreo
di Andrea B. Previtera
“Io non ho fatto niente”, sostiene Larry Gopnik – un uomo serio, matematico di origine ebraica e protagonista dell’ultima fatica dei fratelli Coen. Lo ripeterà più volte durante lo scorrere di una pellicola che ci mostra come la totale autodeterminazione e l’assoluto abbandono all’entropia degli eventi, finiscano comunque per convergere: l’ultima fatica dei fratelli Coen è una fatica non priva di frutti (amari e parzialmente proibiti).
Un cast di nomi poco altisonanti (Michael Stuhlbarg, Richard Kind, Fred Melamed, Sari Lennick – quest’ultima persino alla prima apparizione sul grande schermo) immersi in un 1967 americano dalle tonalità tanto nitide quanto cupe, per una storia che non sfigurerebbe quale prequel di Un giorno di ordinaria follia: la concatenazione di eventi tanto plausibili quanto distruttivi della normalità, della serietà, della compostezza di un uomo e della sua vita regolata da leggi semplici.
Larry Gopnik, il serious man dei titoli di testa, affronta le spigolature delle sue origini, il tradimento e l’abbandono da parte della moglie, i problemi mentali del fratello maggiore e quelli adolescenziali dei figli: li affronta e li assimila per osmosi in una spirale discendente nella quale l’autocontrollo va via via sbiadendo e il conto occulto degli assistenti legali cresce inesorabilmente.
Ethan e Joel Coen, fondendo ancora una volta i ruoli di sceneggiatori e registi, ottengono il controllo totale sulla trasmissione della propria visione allo spettatore attraverso una cura maniacale dei dettagli, dal primo piano allo sfondo. Ecco dunque che su una ricostruzione impeccabile delle atmosfere della provincia americana sul finire degli anni 60, si sovrappongono a pelle d’aglio le piccole inquietudini coeniane: occhiali e capigliature fin troppo simili incollate su personaggi di primo e second’ordine, ad esempio, per dare luogo ad un disarmante senso di appiattimento delle personalità. Molti tra riviste, libri e persino trasmissioni televisive facenti parte della pellicola, poi, parrebbero creati o modificati ad arte per stonare lievemente e introdurre quel lieve disagio subliminale che i Coen ci hanno insegnato ad apprezzare.
Nessuna inquadratura è casuale, in una sequenza di eventi frammentari tra loro completamente disgiunti che vanno a comporsi e amalgamarsi trasformando lo sconcerto iniziale in rivelazione: Larry Gopnik continua a “non fare niente”, e tuttavia il male e il bene si alternano senza soluzione di continuità, e ogni tentativo di controllo si scontra con quello stesso principio di indeterminazione che il protagonista tenta senza successo di spiegare ai propri studenti. Nell’ordine si insinua gradualmente il caos, senso ultimo del film sottolineato ancora e ancora dai Coen in modo magistrale finanche con un apposito tema musicale, che fa capolino quando Gopnik si trova a fronteggiare l’abbandono imprevedibile da parte della moglie, gli atteggiamenti indecifrabili dei vicini di casa, la contemplazione della calma solo apparente del vicinato dal tetto della propria abitazione.
Il resto proviene direttamente dal ricettario degli altri titoli di casa Coen: si ride con il surreale persino senza doverlo necessariamente comprendere, e ci si affeziona in meno di due ore ai personaggi attraverso il meccanismo ben oliato delle situazioni reiterate (l’eterna occupazione del bagno di casa da parte del fratello “disturbato”, la riparazione dell’antenna tv, la fuga del figlio minore dal bullo di zona).
E tuttavia, Ethan e Joel sono passati in un certo senso dalla birretta di un pub al bourbon senza ghiaccio di una lounge fumosa: c’è una diversa maturità in A serious man, che come tutte le forme di crescita implica una certa perdita dell’incanto a vantaggio di una sottile amarezza di fondo. A serious man è un film per coeniani cresciuti, un film che forse non piacerebbe al Grande Lebowski.
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Commenti
un matematico a dispetto di
un matematico a dispetto di tutto. un matematico sino all'ultimo. un matematico è per sempre.
I due critici sono
I due critici sono d'accordo.Non succede quasi mai.Devo solo correggere la citazione da Giobbe che suona "Perchè i verdi anni già passano e SU strade da cui non tornerò io cammino" Saluti a Ghidon
Ringraziando Marinella per
Ringraziando Marinella per l'apprezzamento, mi ricollego alla sua giusta osservazione sull'importanza delle radici culturali e strutturali della pellicola per elaborare un piccolo appunto di cui mi ha messo a parte Ghidon, un amico di famiglia ebrea: pare che in Israele il film sia stato distribuito con il titolo "Il buon ebreo", e probabilmente ci troviamo di fronte a quella che avrebbe dovuto/voluto essere la titolazione definitiva - ma forse intraducibile - dell'opera dei Coen.
Quello del "buon ebreo" è un concetto particolarmente importante che nella sua estrema semplicità (e quindi recepibilità) parrebbe concentrare la summa del pensiero sottinteso ad una storia millenaria: il "buon ebreo" è, in conclusione, colui che accetta tutto quanto gli accade di buon grado e senza opporsi, perchè è cosciente - pur nella totale inerzia - di prendere parte alla costruzione del bene collettivo, di un equilibrio superiore il cui disegno può comunque anche comprendere la sua limitata e personale distruzione.
Una bella recensione,che mi
Una bella recensione,che mi trova assolutamente d'accordo.Vorrei solo sottolineare di più quelle che a me paione le radici culturali ,strutturali e anche umoristiche del film,di tipica matrice ebraica,non diversamente dai libri di Saul Bellow A SERIOUS MAN,di Joel e Ethan Cohen.Con Michael Stulbargg,Richard Kind,Fred Melamed,Usa/GB2009.C’è giustizia a questo mondo?Se sì,bisogna immaginare un sistema di premio/punizione che presupponga un ordine superiore,se no,moriamo e nasciamo nella disperazione dell’assenza di senso.Dotato di un prologo antico,quasi per abituarci all’ambiente e alle credenze radicate della religione dei padri,il film si svolge ai giorni nostri,ed è consigliabile solo agli ottimisti o perlomeno a coloro che,oltre a non soffrire di mania di persecuzione, non cominciano ad avvertire puzza di bruciato rispetto alle loro speranze ed illusioni.Il protagonista è un uomo medio,anzi,mica tanto,nel senso che tenta di comportarsi bene ,e di essere un giusto.Ma i tempi e l’ambiente lo bollano come un debole ,e forse in parte lo è .Inoltre la vita gli dà solo,sempre ,sistematicamente torto:dalla famiglia,alla società,al caso,che è talmente ripetitivo,da sembrare graniticamente scolpito nel grande rotolo del destino.Nel dubbio che il caos o il caso-inammissibili nella loro sfacciata puntualità rispetto a un qualsivoglia Dio- lo bracchino,il nostro aspirante mensch si rivolge come Giobbe ai vari rabbini,che dovrebbero rappresentare la voce divina declinata su una lungamente meditata sapienza ed esperienza umana.Ma tutto continua a franare fino all’ultimo,senza redenzione.Metafora del nostro volgarissimo “la sfiga ci vede benissimo”,nobilitato dall’ambientazione ebraica che offre un tocco in più al contorno,anche se magari i non addentro si perdono qualche riferimento di troppo,il film ha una sceneggiatura ed una articolazione che ruota intorno ad una sola idea,che è quella del libro sapienziale della Bibbia.Naturalmente un Giobbe mediocre,che non passa dalle stelle alle stalle per essere messo alla prova,ma per il quale le stelle sono una lieta sopportazione o non comprensione del contesto,qualche modesta ambizione di carriera,una famiglia ordinata,il rispetto delle tradizioni,e poc’altro.Mentre intorno a lui tutti sono più falsi ,più scafati,più cattivi,più isterici,più tentatori,e ne approfittano.Certo,le mezze maniche del travet inibiscono la grandiosità della ribellione del grande patriarca biblico, che curiosamente viene poco citata.Quando,giunto alla fine del suo secondo pezzo di vita trascinata nello sterco, finalmente si incazza e dice:ma quand’è che tutto questo finisce?”Perchè ì verdi anni già passano e da strade da cui non tornerò io cammino”Come dire che-alla faccia della trascendenza- siamo allevati tutti,credenti e non credenti ,ad aspettarci di più dalla vita.Errore.Le nuvole sono sempre in agguato.Intorno a questa unica idea che pone parecchi altri interrogativi metafisici,qui annegati dalla mediocrità di una borghese vita americana in serie come le casette dei giochi,i Cohen si muovono con il gusto di una quasi sadica ironia murando vivo il non eroe attraverso una serie di piccoli e grandi tocchi che si ripetono ,echeggiando tra di loro,alcuni dei quali veramente irresistibili.Un bel film ,che non ha la potenza e forse nemmeno la pretesa delle pellicole migliori della ditta C&C,ma che riesce a coniugare una-disperata?-nuova leggerezza da maturità con la categoria dell’esistenzial drammatico,procedendo per indovinati ,arguti ,divertenti e divertiti accumuli delle stesse tonalità.Se ci si vuole interrogare e pensare,liberissimi.Se si vuole soltanto sorridere,ed esercitare nel contempo una certa forma di compensativa rivalsa per le nostre miserie,va benissimo lo stesso
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