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FILM

Una storia di vendetta

Il profeta, di Jacques Audiard, racconta di un giovane che sembra destinato a soccombere nel violento ambiente del carcere. Un percorso di formazione, ma non di redenzione


di Gianpaolo Fissore


Uccidere o essere ucciso. Per il diciannovenne Malik (Tahar Rahim) l’esperienza penitenziaria comincia subito all’insegna della lotta per la sopravvivenza. La massima di Hobbes è declinata alle estreme conseguenze, e i lupi di più antico pelo sono i delinquenti corsi, una sorta di aristocrazia criminale, che tiene a bacchetta i secondini e che guarda con l’arroganza del padrone e della superiorità razziale l’altra popolazione dietro le sbarre, in maggioranza arabi. Malik sarebbe di origine nordafricana anche lui, ma in realtà non è nessuno e non ha niente. E’ senza famiglia e senza religione, non sa neppure leggere e scrivere. E’ un predestinato: alla sottomissione e alla pratica della legge della violenza. Gli atri scelgono per lui, in questo caso il clan dei corsi e il suo capo, Cèsar (un bravissimo Niels Arestrup). Il ragazzo, drammaticamente, si adegua.
 
Il profeta di Jacques Audiard (si ricorderà di lui Tutti i battiti del mio cuore) è una storia di formazione: molto lunga (il film dura due ore e mezza), intensa, narrata con ritmo incalzante. Racconta di una vita che inizialmente è un vuoto a perdere, e che, dietro le sbarre, si riempie di esperienza, di determinazione, di una straordinaria volontà di apprendere e di far fruttare ogni conoscenza. Racconta di una sottomissione che infine si trasforma in vendetta.
Un carcere di rumori sordi, quasi un’ abulica e sonnolenta sala d’aspetto dove ogni tanto e rapidamente si consumano atti feroci, fa da sfondo alla carriera del giovane Malik. Non è un percorso di redenzione il suo, ma un percorso di resurrezione: una faticosa ricerca di affermazione di sé, che passa attraverso l’insopprimibile pratica dell’“uccidere o essere ucciso”.
 
C’è molto sangue – talvolta insopportabile e fastidioso come l’inizialmente fragile solitudine del protagonista – in questo film, che pesca con molta originalità tra i generi (il thriller carcerario, la gangster story), per proporre una “nera” metafora sul rapporto tra l’individuo, la società e il potere. Lo spietato e in qualche modo “fortunato” Malik non aspira a diventare un nuovo boss criminale. L’inedito anti-Scarface, come ci descrive l’epica scena finale, si riscatta riuscendo a definirsi per qualcosa e con qualcuno: sulla strada della libertà, e soprattutto della dignità, ci sono l’identità etnica e il legame affettivo che non ha mai avuto.



Tags: carcere, Gianpaolo Fissore, Il profeta, Jacques Audiard, Niels Arestrup, storia di formazione, Tahar Rahim,
22 Marzo 2010

Oggetto recensito:
IL PROFETA, DI JACQUES AUDIARD, FRANCIA 2009, 150 M.

Premi: Gran premio della giuria a Cannes e vincitore di 9 Cesàr in Francia

giudizio:



8.063514
Media: 8.1 (37 voti)

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