Recensione divagante per un libro che lo è di più. Cargo, all'epoca uscito per Einaudi e oggi riproposto da Laurana in ebook, è l'opera di un ex cannibale che è andato molto oltre. Romanzo esploso in cui si intrecciano linguaggi, invenzioni esilaranti e digressioni, diversi livelli di realtà (tutti ugualmente irreali)
di Stefano Nicosia
Quando Maria Corti (uno dei più grandi critici che l’Italia abbia avuto) recensì Cargo sulla Repubblica il prezzo dei libri era ancora in lire. Per la precisione, di lire ne costava 18.000 questo romanzo, pubblicato da Einaudi e scritto da un autore che aveva già conosciuto il favore della critica con un racconto nell’antologia Gioventù cannibale, curata da Daniele Brolli nel 1996, e con Una particolare forma di anestesia chiamata morte.
Il fatto che il libro, ora di nuovo disponibile grazie a Laurana in formato ebook, sia corredato da quella recensione e da una succinta ma efficacissima introduzione di Marco Drago mi farebbe recedere da ogni tentativo di recensirlo a mia volta. Naturalmente sarebbe anche un volgare escamotage davanti ad un compito oneroso, cioè ricomporre parzialmente la struttura centrifuga che informa il libro. Il rischio è di finire come Galiazzo stesso dipinge i critici: «Tra quello che scrive o dice il critico e quello che hai scritto tu c’è una relazione talmente debole che puoi tranquillamente pensare che stiano parlando di un altro. […] Stanno parlando di loro stessi». Consapevole di ciò, parlerò proprio d’altro, magari per caso finirò per parlare giusto di Cargo.
Qualche anno fa uscì per i tipi di Medusa un libro di Mario Porro intitolato Letteratura come filosofia naturale. Il titolo riprendeva un’espressione di Calvino e teneva insieme, con lui, Gadda e Primo Levi, accomunati i tre da uno sguardo “naturalistico” sulla realtà (un attimo, ci sto arrivando). Differenti erano e rimangono i motivi che presiedevano il loro bisogno di tenere insieme scienza e letteratura, rispetto alle generazioni successive; tuttavia, sotto alcuni aspetti, simile è l’effetto che – da lettore – registro leggendo anche Galiazzo. L’effetto è quello dell’ibridazione dei linguaggi – che sono poi delle forze – pensati abitualmente come respingenti l’uno dell’altro, ma in realtà invece compatibili, componibili. Il linguaggio tecnico-scientifico e l’arte letteraria si incontrano tutto sommato da sempre: alla teologia medievale si sono sostituiti i teoremi dell’incompletezza di Gödel, all’osservazione delle stelle la teoria economica.
Il gioco sullo scarto tra i due linguaggi si fa più vorticoso, però, nel Novecento, e poi qui in Cargo, dove si aggiunge come moltiplicatore d’effetto una struttura disassemblata, i cui pezzi sono a loro volta su piani diversi di narrazione. È un tutto, ma smembrato e riposto su una scaffalatura a diversi livelli. I frammenti parlano tra loro, ma hanno una relazione anche con la struttura stessa. C’è una manuale di istruzioni, ma la ricostruzione è continuamente distratta, portata altrove, differita e rimpiazzata dall’assemblaggio di un altro pezzo, sparso più in là, trovato sotto un mobile, spuntato fuori da una tasca. Ma Galiazzo non sbuffa, si diverte anzi un mondo, ed esilara anche il lettore con delle trovate formidabili (riportare le cose divertenti di un libro in una recensione è come spiegare una barzelletta, quindi, ancora una volta, va proprio letto, signori). Che si tratti di università fantasma o di riscritture di teorie economiche, questo romanzo è generoso di situazioni portate volontariamente al paradosso, come per testare la loro resistenza e la propria capacità ludica e inventiva, in un gioco reiterato – ma non stancante – di demistificazione della struttura narrativa stessa. Infatti, oltre che un romanzo, Cargo è anche una riflessione semiseria sulla scrittura (a scuola mi hanno insegnato che ci va il meta-: ecco, Galiazzo è tutto meta-).
Scusate, mi devo interrompere. Lo so, il recensore che parla di se stesso è insopportabile, e mediamente lo fanno solo gli ultrasettantenni su giornali prestigiosi. Però ripensando alla struttura di Cargo mi è venuto in mente il saggio che chiude Una pietra sopra di Italo Calvino (ritorna: non è un caso). È del 1978, si intitola I livelli della realtà in letteratura e, penso mentre lo cerco sullo scaffale, è perfetto per questo tipo di opera. Lo apro, lo scorro fino all’ultima pagina. Ci trovo qualcosa che non ricordavo, ma che ho appena letto, lì, nella conclusione del libro di Galiazzo, quasi identica. Calvino: «I livelli di realtà che la scrittura suscita, la successione di veli e di schermi forse s’allontana all’infinito, forse s’affaccia sul nulla. […] Forse è nel campo di tensione che si stabilisce tra un vuoto e un vuoto che la letteratura moltiplica gli spessori d’una realtà inesauribile di forme e di significati. […] La letteratura non conosce la realtà ma solo livelli. Se esista la realtà di cui i vari livelli non sono che aspetti parziali, o se esistono solo i livelli, questo la letteratura non può deciderlo. La letteratura conosce la realtà dei livelli». E qui ci si tace.
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Matteo Galiazzo, Cargo, Laurana 2013, € 4,99 (ebook)
Matteo Galiazzo (1970) ha esordito come scrittore di racconti nelle antologie Gioventù cannibale e Anticorpi (Einaudi 1996 e 1997) e sulla rivista «Maltese narrazioni». È autore della raccolta di racconti Una particolare forma di anestesia chiamata morte (Einaudi 1997) e dei romanzi Cargo (Einaudi 1999) e Il mondo è posteggiato in discesa (Einaudi 2002), in corso di riedizione per Laurana in ebook. L’ultimo suo libro è Sinapsi uscito per Indiana nel 2012 (leggi la nostra recensione)
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