Sono "color nostalgia" i nuovi scritti di Francesco Guccini, come le stoviglie di una sua vecchia canzone, di quelle che ormai non scrive da un pezzo. Dizionario delle cose perdute è l'ultima fatica, solo letteraria, a suo nome: una collezione di cartoline ingiallite e di racconti da bei tempi andati
di Giuseppe De Marco
L’ispirazione è come il coraggio di don Abbondio: se uno non ce l’ha, non ce l’ha. E finché capita di perderla ad un manovale, un impiegato o un vigile urbano, pazienza. Ma se a smarrirla è un artista (o addirittura un Artista) allora i casi sono due. O si fa finta di niente e si va avanti all’infinito a replicare le stesse cose (ed è la strada di gran lunga più seguita) oppure si appendono gli strumenti al chiodo e si attende placidi il maturare degli eventi.
Francesco Guccini ha tante qualità, non ultima quella di essere uno dei pilastri della musica d’autore italiana. Ma soprattutto ha una grande fortuna, che è quella di poter passare con crescente disinvoltura dagli spartiti ai manoscritti, con ciò attenuando di molti i rischi di un prepensionamento indesiderato. Eh sì perché il nostro, l’ispirazione di cui sopra, l’ha perduta già da un po’, come ha lui stesso candidamente ammesso anni fa (e infatti l’ultimo album da studio è del 2004, anche se pare sia in lavorazione il suo disco di addio). Ma invece di continuare a battere sullo stesso tasto stonato, si è dato alla sua seconda passione (delle tante a onor del vero. Si diletta anche col cinema, il teatro, i fumetti e i saggi...): la scrittura.
Insomma, chi proprio non può fare a meno del Cyrano modenese, chi si strugge dal desiderio di rivivere le emozioni delle mille ballate del poeta cantastorie, non deve ridursi ad ascoltare La locomotiva per la milionesima volta fino a sentirsi il vapore uscire dalle orecchie. Gli basta andare in libreria e scegliere uno dei titoli dell’ormai cospicua bibliografia gucciniana, che spazia dall’esordio nel lontano 1989 (Cròniche Epafàniche) a quest’ultimo Dizionario delle cose perdute, che è poi l’oggetto di questa recensione.
Siete già annoiati? Allora forse è meglio che vi risparmiate la lettura. Altrimenti correte il rischio di imbattervi in farsi tipo (scelta casuale tra decine di alternative dello stesso tenore):
“Giorni grami, quelli d’una volta, quando il freddo, da novembre a febbraio (e a volte prima e oltre), si faceva sentire. Oggi giriamo di stanza in stanza e, miracolo, sono tutte ugualmente riscaldate”. Oppure, giusto in apertura: “Noi siamo quelli lì. Oh certo, siamo cresciuti, e abbiamo affrontato, chi più, chi meno, le varie avversità o le gioie (le poche, in verità, gioie) che la vita di volta in volta ci ha presentato”.
Chiaro il concetto no? Insomma il povero Guccini si è calato talmente nella parte del “vecchio-che-racconta- storie-di-gioventù” che a volte pare di vederlo con la coperta sulle gambe mentre parla davanti al fuoco per la centesima volta della sua naia o dei mutandoni di lana che gli toccava indossare da bambino.
Per carità, il vecchio ci sa fare, soprattutto nella rievocazione di ambienti e personaggi che sembrano usciti da una cartolina ingiallita. E anche chi negli anni Quaranta e Cinquanta magari non era ancora nato potrà apprezzare l’affresco di un’Italia in bianco e nero, lontana che pare un secolo. Però certo il rumore dei sospiri che costellano il suo personale amarcord a tratti si fa davvero assordante. E verrebbe da supplicarlo: “Francesco, la vedi quella chitarra appesa alle tue spalle? Suonala, ti prego. E lascia stare il pennino e il calamaio!”.
Poi però ti ricordi che stai pur sempre parlando del buon Guccini, uno che si è guadagnato con i suoi versi una linea di credito praticamente illimitata. E allora prosegui nella lettura. E se ti sbrighi, riesci a concluderla prima che il sorriso si trasformi in sbadiglio.
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Francesco Guccini, Dizionario delle cose perdute, Mondadori 2012, p 140, 10 euro
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