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LIBRI - NARRATIVA

Skagboys are back in town

Ancora l'Inghilterra anni '80, marcia e desolata, l'altra faccia del thatcherismo. Ancora storie di eroinomani, gli stessi che abbiamo già conosciuto in Trainspotting, ritratti qualche anno prima. Irvin Welsh, con la scusa del prequel vent'anni dopo, riscrive lo stesso romanzo di sempre: prescindibile eppure irresistibile


di Gabriel D'Amico

 


Metto le carte sul tavolo: quando si parla di Irvine Welsh perdo molta della mia obiettività. Se un giorno pubblicassero il suo diario delle medie, io sarei in fila al day one e nel leggerlo sarei un uomo felice e appagato. Con queste premesse, potete immaginare la mia reazione nel sapere che era prevista la pubblicazione di un prequel di Trainspotting. Al pensiero di centinaia di pagine di nuove avventure del trio Rents-Franco-Sick Boy il cuore si gonfiava d’attesa. Capirete bene che era difficile ripagare degnamente le aspettative di un fan terminale. Se Skagboys ci sia riuscito o meno è l’oggetto sul quale verte questa recensione.
 
Welsh è un po’ come Bukowski, un autore amatissimo dai quindicenni hipster che bevono Tennent’s Super per darsi un’aria da dannati. E come Bukowski (e salvo sporadiche incursioni nella crime novel grottesca dalla riuscita altalenante) scrive sempre lo stesso libro. Ma lo scrive benissimo: è una garanzia ma anche un limite - l’unico se volete la mia opinione. A cominciare proprio dal suo esordio, Trainspotting, forse la sua opera più famosa e meno riuscita, ha sempre messo al centro di tutto i personaggi, i loro pensieri e il loro quotidiano.

 
skagboys.jpgLa trama è semplice narrazione di vite, di gesta molto spesso banali, esattamente come nella vita non c’è un intreccio, ma il Caso e le conseguenze delle azioni. Quasi tutte le sue opere sono ambientate nello stesso universo, abitato dagli stessi personaggi che volentieri si prestano per un cameo, il tempo di fare un salto per una birra o un buco con il protagonista di turno. Riprendere in mano un romanzo di Welsh è un modo per ritrovare persone che amiamo, tornare in luoghi familiari, riascoltare lo stesso aneddoto dell’amico di sempre. L’autore, pur mantenendo uno stile riconoscibile, si annulla nelle sue creature e lascia loro il palcoscenico; racconta ambienti che sono evidentemente i suoi, i sobborghi portuali di Edimburgo dove le giornate sono sempre uguali e la noia si sconfigge con droga e violenza.
 
Con Skagboys, dunque, si torna alle origini. Nella Gran Bretagna di Maggie Thatcher, i nostri ‘eroi’ crescono tra squallore urbano e brutalità poliziesca. Renton, alter ego dell’autore, lo ritroviamo ventenne e ben avviato alla carriera universitaria. È un giovane cresciuto tra dischi e lotte sindacali, appassionato di letteratura e musica. Sick Boy è il solito narcisista machiavellico e manipolatore, un seduttore affascinante e velenoso la cui unica morale è il proprio tornaconto. Begbie è lo psicopatico sboccato e pericolosissimo di sempre, già delinquente dalla spessa scafatura di strada. L’ossatura della narrazione è il boom dell’eroina negli anni ottanta e le conseguenze sulle vite dei boys di Leith. Una parabola di decadenza di cui la droga non è però la causa, ma l’ovvio approdo.
 
La prima cosa che spicca allo sguardo del welshiano è che i giovani protagonisti non sono le carogne malvage che già conosciamo dalle storie successive. Sono molto, molto peggio. Con la consapevolezza di come andranno a finire le loro storie, ci si accorge che i protagonisti non sono lo stato embrionale di un male futuro, in fieri, ma giovani sciacalli già perfettamente formati, figli di una società in disfacimento come un corpo devastato dalla droga. Lo sguardo di Welsh, cinico e lucidissimo come sempre, descrive senza filtri o remore un’umanità infetta, pericolosa, disgustosa. E non cerca facili scappatoie sociali: la repressione thatcherista spiega ma non giustifica. Per questo ritorno alle origini, addirittura, Welsh abbandona quasi completamente il tipico umorismo nerissimo, quella sfumatura che permeava la narrazione e rendeva più accessibile la lettura di storie altamente disturbanti. Dimenticatevi insomma i flash colorati di Porno o le sparate di Gas Terry in Colla. In Skagboys il punto di vista dell’autore è esterno, antropologico, nemmeno in parte auto-assolutorio, anzi, rassegnato all’idea che il destino dei suoi eroi, vittime e carnefici, è fottuto in ogni caso.
 
Da questo punto di vista è un libro ancora più estremo de Il Lercio, che almeno accennava alla possibilità di una redenzione. Emblematico in proposito il monologo interiore di Sick Boy di fronte al suo crimine più abietto, un capitolo che potrebbe farvi commuovere o colpirvi nei denti con violenza brutale. A conti fatti è una prova di maturità artistica, la tappa finale di percorso. Probabilmente mette la parola ‘fine’ a una saga ventennale. 
Pur non essendo un capolavoro, Skagboys ti tiene incollato con stile, come sempre: la prosa di Welsh, si sa, crea "dipendenza" (... scusate). E tuttavia ancora una volta non è nulla di nuovo, la storia è più o meno sempre la stessa, molte situazioni sono interscambiabili con quelle narrate in Trainspotting, quasi un remake, anche se più riuscito dell’originale. Trascurabile per i non addetti e imprescindibile per i fan. 
 
Quanto alle  aspettative del sottoscritto, sono state ripagate? Sì e no. Sì perché l’ho divorato in due giorni ed ero ben lungi dall’averne abbastanza. No perché ho sperato ingenuamente in una rivoluzione stilistica e di contenuti, che è avvenuta solo in piccolissima parte. Purtroppo e per fortuna, Irvin è ancora quello che conoscevamo.


Tags: Gabriel D'Amico, guanda, Irvin Welsh, recensione, Rents, Sick Boy, Skagboys, trainspotting,
29 Maggio 2013

Oggetto recensito:

Irvin Welsh, Skagboys, Guanda 2013, p 618, 17 euro

 

giudizio:



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