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DISCHI

Robert Plant, la gioia di essere sceso dal Dirigibile

Immune dalle tentazioni di riunire i Led Zeppelin, il vecchio leone del rock rispolvera il marchio Band of Joy, il nome del suo gruppo degli esordi. E parte alla riscoperta di brani folk, country e indie: leggero e senza nostalgie


di Simone Dotto

 


plant_2.jpgUn giorno arriverà il diluvio a fare giustizia di questi tempi musicali strabici: dei ventenni che rovistano di nascosto tra le collezioni di dischi dei genitori e delle vecchie glorie strizzate in completi di pelle acquistati cinquanta primavere prima. Un giorno arriverà il diluvio a fare piazza pulita, e quando comincerà a piovere qualcuno correrà a salvare Robert Plant. Graziato, per non averci mai fatto pesare i suoi sessant’anni e il suo luminoso passato. Per non esser mai caduto nella tentazione di qualche squallido revival e – soprattutto – per aver opposto il gran rifiuto ad un implorante Jimmy Page quando si è trattato di riunire i percorsi. 
 
Nei trent’anni trascorsi dalla fine dei Led Zeppelin ad oggi, il cantante si è concesso solo per poche rimpatriate, sempre a trovare cavilli e falsi nomi pur di non scomodare la vecchia ragione sociale. “Jimmy Page & Robert Plant Unledded” si leggeva sul retrocopertina di No quarter, il disco del 1994 in cui i due sodali si ritrovarono a suonare tra Londra e Marrakech con l’aiuto dell’Egyptian Ensemble. Se per il chitarrista non fu più di una sveltina, in quell’occasione Plant vide la luce e decise di far ripartire da lì la propria strada. Alla larga dall’hard rock tutto muscoli, sempre più alla riscoperta delle radici angloamericane ma senza disdegnare qualche capriccio etnico qua e là. 
 
Su queste stesse coordinate si colloca il suo lavoro più recente. Dopo aver sabotato anche l’ultimo tentativo di riunire i cocci degli Zeppelin nel 2007, Plant compie l’affronto definitivo: riesumare il nome di quell’altro gruppo, quello in cui militava giovanissimo, prima di salire a bordo del Dirigibile. D’accordo, l’attuale Band of Joy non è più quella manciata di musicisti alle prime armi che bazzicava Birmingham nel ’66, ma una formazione di rodati professionisti - compreso quel Buddy Miller che ha già lasciato la propria impronta in chissà quanti dischi a Nashville e dintorni. Filologie a parte, però, il messaggio è chiaro: tra la sue vite precedenti il cantante sceglie quella meno ingombrante, più anonima e – quindi - più libera. Al contrario del giovanotto che urlava Whole Lotta Love, chi guida la “banda della gioia” non ha un granché di immagine pubblica di cui rispondere e di conseguenza, suona e canta ciò che più gli aggrada. E che può andare dal folk per chitarra elettrica di Angel Dance dei Los Lobos al quasi rockabilly di You can’t buy my love.
 
E’ quasi un disco di cover, Band of Joy, ma lo nasconde bene. Proprio in nome della piena autonomia, pesca a destra e a manca, spaziando dagli incompiuti di Townes Van Zandt a certi reperti della tradizione country, così “traditional” che alla centesima riproposizione finiscono per suonare un po’ leziosi. Ma proprio quando lo dai per spacciato su una sbrodolata di troppo, il vecchio leone ti piazza la zampata che non ti aspetti: quasi nascoste, in scaletta fanno capolino Monkey e Silver rider, due perle scippate dal repertorio dei Low, un trio “musone” del Minnesota che viene costantemente annoverato dalle riviste del settore fra le cose più interessanti degli ultimi dieci e forse anche vent’anni, ma che era difficile immaginarsi tra gli ascolti personali di un rocker agé
 

Dietro la sua apparenza “classica” questo disco rivela una ricerca profonda, senza fare distinzioni fra presente, passato prossimo o remoto. A riprova, un’ultima traccia che mette in musica i versi del poeta Theodore Tilton: “Cos’è la fama ? / la fama non è che una lunga decadenza / persino questo passerà”, filosofeggia in Even this shall pass away. Una lezione sullo scorrere del tempo che viene direttamente da duecento anni fa.  Se davvero un giorno arriverà il diluvio, Robert Plant si presenterà con l’ombrello già aperto. 



Tags: band of joy, country, folk, jimmy page, led zeppelin, low, no quarter, recensione, robert plant, rockabilly, Simone Dotto,
24 Settembre 2010

Oggetto recensito:

Robert Plant, Band of Joy, Decca 2010

 

giudizio:



7.845003
Media: 7.8 (18 voti)

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