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LA TV IDEALE/4

A chi serve la tv di servizio?

Continua il dibattito degli intellettuali sulla televisione del futuro. Studioso dei media e professore all'Università di Torino, Peppino Ortoleva invita a tornare a monte della questione: perché la qualità delle trasmissioni dipende anche da cosa intendiamo per "pubblico" e "privato"
 


di Peppino Ortoleva

 


E' bello pensare a una televisione ideale, che produce e manda in onda i programmi che riteniamo i migliori, sulla base di criteri estetici, pedagogici, o perché no etici: del resto, la televisione italiana abbonda di figure e figuri che fanno la morale a tutti. La vecchia tradizione liberale, quella che nasce da Milton e passa per Stuart Mill, quella che ormai dovrebbe essere un patrimonio dell'umanità come Venezia, ci invita però a un ragionamento diverso. La televisione ideale non nasce dalla somma di sogni o progetti singoli: nasce da un processo collettivo, fatto di cooperazione e conflitti. Nasce nel sistema che ha le regole migliori, quelle che favoriscono una nobile gara tra autori e autori, programmi e programmi. Una gara che serve nella battaglia delle posizioni politiche quanto nel confronto estetico.
 
Se la televisione italiana è orrenda, anche in termini di programmi, non è solo né tanto perché gli autori italiani siano poco bravi, o perché manchino le idee per programmi nuovi, o perché la televisione sia in crisi un po' dappertutto come spesso si dice ("ormai la televisione è morta, c'è solo internet, caro lei") e non è vero - l'ultimo decennio ha visto non solo negli Usa un fiorire straordinario di idee, per esempio in campo narrativo. E' perché il sistema è fatto per penalizzare: le idee e le cosiddette professionalità. In che modo?
 
Paghiamo ogni anno una tassa che si chiama canone. Viene destinata alla Rai, formalmente una società per azioni che è di proprietà dello Stato al 100%, meno qualche decimale che va a un altro carrozzone, la Società degli autori ed editori (Siae). E' una tassa che paghiamo tutti: dire che si tratta di un “abbonamento”, e che dipende dal possesso di un apparecchio televisivo è una delle infinite ipocrisie italiane. Il bollettino (e, se non pagano, le ingiunzioni del pretore) lo ricevono tutti i nuclei abitativi, una volta c'erano degli “ispettori” che si infilavano nelle case per vedere se c'era un televisore, adesso si dà per assodato che ci sia. Meglio per la privacy ma tanti saluti alle regole: quelli che non ce l'hanno sono statisticamente trascurabili e magari anche un po' troppo anomali per riservargli un trattamento che può sembrare di favore. Se sono così snob da non avere la televisione mica vorranno pagare meno degli altri.
 
Che cosa dà alla Rai questo diritto? Mi dovrete seguire in un percorso di parole apparentemente solide, con apparenti fondamenti giuridici, ma in realtà eteree come le più bizantine delle controversie teologiche. Dunque, il canone viene versato come contropartita del “servizio pubblico radiotelevisivo”. Che cos'è? Finché c'era il monopolio, il servizio pubblico era la giustificazione del monopolio. Una giustificazione arrampicata sugli specchi perché in Italia c'è un articolo della Costituzione che prevede la libertà di manifestazione del pensiero “con le parole, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, e non si vede perché tra gli altri mezzi fosse escluso proprio il più potente (e sia escluso tuttora, perché non vorremo mica sostenere che oggi la televisione è un mezzo di espressione a disposizione di tutti...). Così, dal 1948 al 1974 si è sostenuto che la radio prima e poi la radiotelevisione stessero meglio nelle mani di uno che nelle mani di tutti: perché le frequenze erano poche e si arrivava comunque all'oligopolio, perché la televisione, si sa, ha un'influenza abnorme, insomma è un po' pericolosa e allora libertà sì ma meglio se ben tutelata. In sostanza, controllo pubblico. 
 
E qui, “pubblico” diventa almeno due cose diverse. Pubblico come proprietà pubblica: un monopolio, che in Italia ha trovato un quadro giuridico ed economico che sembrava fatto apposta, cioè le partecipazioni statali, residuo dell'economia mista fascista che tranne pochi estremisti del liberismo facevano comodo a tutti. Aziende né veramente pubbliche né veramente private, dove i partiti di governo comandavano a man bassa ma con il pretesto che alla fine gli utili andavano alla collettività. 
 
E pubblico come, ecco la parola magica, servizio pubblico. Un concetto nato nel Regno Unito, quello che aveva fatto da fondamento alla Bbc: una radio, e poi una televisione, che non offrivano al pubblico, ai cittadini, una varietà tra cui scegliere (come succede con i libri, coi giornali, con l'editoria), ma gli garantivano un flusso di suoni e poi anche di immagini controllato, equilibrato sul piano informativo, divertente ma in modo meno “corrivo” rispetto al cinema per non parlare dei fumetti, e poi tanto tanto istruttivo. Solo che nel sistema britannico il servizio pubblico era garantito da uno statuto preciso e da un controllo indipendente dal governo; che a decidere se la tv era più o meno corriva del cinema lo decideva un'autorità che ci metteva la faccia.
 
In Italia no. All'epoca del monopolio l'idea di servizio pubblico era questa: da una parte una foglia di fico per la mancata applicazione alla tv della Costituzione e per lo strapotere prima democristiano poi pluripartitico, dall'altra un'ideologia che ha retto le professionalità radiotelevisive; e che ha prodotto una televisione sicuramente meno di qualità di quanto ci raccontino le lenti rosee della memoria, ma certo ci ha dato parecchi programmi non indegni. Pubblico non come una selezione trasparente delle cose da fare, ma come il controllo del governo. Poi il monopolio è finito. Ma è rimasto il canone. Il servizio pubblico, da giustificazione del monopolio, è diventato attraverso il canone una fonte enorme di reddito per un'azienda tra le tante attive sul mercato, in nome della sua “diversità”. E qui il concetto, che già era impalpabile prima, diventa del tutto inafferrabile.
 
Che cos'è servizio pubblico nella Rai del dopo-riforma e del duopolio? L'informazione tagliata a fette come una torta? Il festival di Sanremo? O i programmi che si dichiarano educational e che qualche volta lo sono sul serio? Il servizio pubblico in Italia oggi è la Rai. Punto. Per quanto riguarda la proprietà, l'idea che in Italia ci siano una televisione pubblica e una privata è tecnicamente vera: ma che strano pubblico e che strano privato. La parte privata appartiene per la quasi totalità (basta controllare i fatturati) a un'azienda la cui quota di controllo è a sua volta detenuta da un'altra azienda di cui non è possibile conoscere i reali proprietari; provate a proporre una norma per cui una società concessionaria (anche la radiotv privata è concessionaria, perché l'etere appartiene allo Stato) deve essere trasparente nella proprietà e curiosamente non si ribella solo il Pdl... 
 
Oltre tutto chi controlla (per quel che ne sappiamo) l'azienda controlla anche il partito di maggioranza e sta da un quindicennio in posizione di potere, a capo o del governo o dell'opposizione, qualche volta di tutti e due. E questa sarebbe un'azienda privata. La parte pubblica appartiene a un'azienda di Stato ma che può fallire come una salumeria (e ogni tanto la minacciano di costringerla a portare i libri in tribunale), che è sottoposta simultaneamente al potere del Tesoro che è il proprietario, del Parlamento attraverso una commissione che dovrebbe vigilare sulle radiodiffusioni ma vigila solo sulla Rai, dei partiti attraverso un consiglio di amministrazione che è l'emblema della spartizione. E fin qui non abbiamo citato un particolare: che a differenza della Bbc la Rai oltre il canone prende la pubblicità. Ha un “tetto”, (nato in origine per tutelare i giornali, ma chi se lo ricorda più) e da sola prende una fetta abnorme del fatturato pubblicitario italiano.
 
Dov'eravamo rimasti? Ah, il servizio pubblico. Gli si potrebbe dare un senso? Potremmo provare a pensare che, incredibile, serva a qualche fine utile? Per esempio, potremmo cominciare con il non farlo più coincidere con l'azienda pubblica. Fatto questo, ci sarebbero tante belle cose che il canone potrebbe pagare: per esempio, visto che la televisione tanto più se finanziata dalla pubblicità è per sua natura piuttosto conservatrice, il rischio del tentare strade nuove; per esempio, in un paese dove i giovani intellettuali fanno gli operai edili, la promozione di autori delle generazioni più penalizzate; per esempio, la circolazione internazionale di storie e di storia. Sarebbe necessaria un'azienda pubblica per questo? Magari potrebbe aiutare, ma perché tre reti? La risposta la sappiamo tutti: perché se no non si reggerebbe più una Mediaset a tre reti, e se ne perdesse anche una sola addio utili miliardari.
 
Ecco. La mia televisione ideale prevede non più di un canale per ogni soggetto, e tra questi ci metto anche (se proprio ci deve stare) lo Stato, ed eventualmente un canale delle regioni. Ma tutte: e si provassero a fare una televisione delle diversità. E il servizio pubblico ben separato della proprietà: il canone a chi, pubblico o anche privato, fa delle cose che senza il canone non potrebbe fare, non l'ennesima autorità ma concorsi pubblici trasparenti. E' impensabile? Diceva Brecht a proposito della sua teoria della radio: “Se dite che è un'utopia spiegatemi perché dovrebbe esserlo”.



Tags: BBC, Peppino Ortoleva, rai, Servizio pubblico, televisione ideale, televisione privata, televisione pubblica, tv,
24 Novembre 2010

Oggetto recensito:

la tv ideale

Altri articoli della serie:
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Tele dico chiare di Michela Murgia
Come TVorrei di Sandra Petrignani
La rivoluzione non è una prima serata di Antonella Cilento
Fuori Orario di Roberto Alajmo
 
Interventi arrivati in seguito all'appello lanciato anche da questo articolo sul quotidiano online Affaritaliani
Pedagoghi, alla larga dalla mia cara, vecchia, stupida tv di Ottavio Cappellani

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7.88625
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Commenti

mi è molto piaciuto il

mi è molto piaciuto il distinguo tra non possessori di tv e generalizzazione del canone a tutti...faccio notare cheun tempo si pagava meno per i possessori ti tv in bianco e nero e di più per i possessori di tv a colori, anche questo uso poi è andato perduto, in futuro forse chi avrà la tv 3d pagherà di più du chi l' avrà bidimensionale? ai posteri l' ardua sentenza, l' unico dato derto è che sia rai che mediaset in un perido di crisi ci costringono ad acquistare un decoder o una tv nuova per poter vedere il digitale terrestre. Se la rai si dovesse basare solo sul canone senza pubblicità che FORSE rivaluterebbe le idee a spese degli ingaggi miliardari di presentatori e guest star....e poi getto un sassollino nello stagno...ma nonesisteva un tempouna legge che impediva che i film venisserosempre interrotti dalla pubblicità?

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