• Seguici su:
ATTUALITA'

Come vincere il terrore

Più soldati in Afghanistan e Iraq, più controlli invasivi alle frontiere. Meno libertà per tutti.
Ecco perché la paura non è la risposta giusta ai kamikaze


di Mimmo Càndito


Ero negli Stati Uniti nei giorni dell’attentato al volo della Northewest Airlines diretto a Detroit, e sono rimasto sorpreso dall’attenzione e dalla sottolineatura che i media davano alla identità sociale del giovane nigeriano Umar Faruk Abdul Mutallab: una famiglia molto ricca, gli studi in un college della Gran Bretagna, il padre banchiere di alto prestigio ed economista governativo. Era un ritratto che – nello sconcerto che accompagnava le parole dei cronisti e dei commentatori – mostrava di ribaltare lo stereotipo del “terrorista” che essi ritenevano fosse impiantato nell’immaginario dell’opinione pubblica americana.
E simile sconcerto ho poi letto però – e rivisto – nelle cronache e nei commenti dei media europei. Come se il terrorista-suicida, quello che noi con una scorciatoia storica chiamiamo “un kamikaze”, non debba essere che povero, incolto, perduto nella sua condizione di estrema marginalità, trascinato nelle pieghe di una lettura di cieco fanatismo religioso.
 
Quanto è accaduto nei cieli di Detroit mette meglio in luce una definizione più realistica della identità dei terroristi islamici, proiettandola all’interno di due possibili categorizzazioni. Una è certamente quella che finora è apparsa la più diffusa negli attentati (in gran parte di quegli episodi, comunque) compiuti direttamente nei paesi musulmani, in presenza di una guerra o comunque di gravi conflitti sociali, dall’Iraq all’Afghanistan, dal Maghreb alla Palestina e all’Asia. In quei territori, il “kamikaze” è stato quasi sempre un soggetto (uomo più spesso, ma talvolta anche donna) la cui fragilità psicologica, e una formazione culturale ristretta nell’orizzonte corto delle scuole coraniche, erano strumentali per un progetto di sacrificio testimoniale sostenuto da una totale immedesimazione nel misticismo della fede. La morte come esaltazione del sacrificio in un teleologismo di riscatto a difesa dei valori dell’islam.
L’altra categorizzazione riguarda, invece, uomini (e donne, ma soprattutto giovani) per i quali una lettura ideologica del sacrificio testimoniale si esprime come atto ultimo di una protesta che fonde le motivazioni religiose in una visione dichiaratamente “politica” del jihad contro l’Occidente, e presuppone dunque una formazione culturale elaborata sui sentimenti di frustrazione, di umiliazione, di emarginazione, che attraversano le emozioni di larga parte delle società musulmane, soprattutto quelle arabe. E in questa seconda identità è raccolta gran parte degli atti compiuti negli Stati Uniti (e in Europa), da terroristi come Abdul Mutallah, come lo psichiatra militare Malik Hasan (strage nella basa americana di Fort Hood), come molti convertiti da Daniel Boyd a Breant Vinas.
 
Immaginare, dunque, una “guerra al terrorismo” come atto militare organico e globale comporta una visione del problema che non pare capace di cogliere né – soprattutto – di affrontare la realtàdel fenomeno che si vorrebbe eliminare, mentre appaiono più organici alla sua (comunque complessa) identità i progetti di contenimento basati su un “attacco” alle cause sociali, politiche, economiche, che lo sostanziano. E, in ogni caso, privilegiare in termini molto rigidi una risposta “militare” finisce per attivare una psicosi della paura che non corrisponde alle dimensioni reali del deficit di sicurezza che mediaticamente allarma le opinioni pubbliche dell’Occidente.
I rischi di un attentato terroristico non sono mai – realisticamente – eliminabili; ma la loro dimensione è molto ridotta, rispetto alla percezione che se ne ha diffusamente in un quadro di possibile (spesso autentica) manipolazione politica. Il problema della sicurezza, ingigantito al di là della sua concreta natura, tradisce l’equilibrio che dovrebbe essere mantenuto con il problema delle garanzie della libertà, individuale e collettiva: un recente sondaggio Gallup negli Stati Uniti ha rilevato che quasi due terzi della società americana – società nella quale la cultura della libertà ha connotazioni molto profonde – sono disponibili a cedere quote, anche elevate, di libertà in funzione di maggiori garanzie sulla sicurezza. E il rischio di una deriva delle nostre società è l’allarme più autentico che il terrorismo sollecita alla nostra razionalità.


Tags: afghanista, america, attentati, iraq, islam, kamikaze, libertà aeroporti, Mimmo Càndito, natale, sicurezza, terrorismo, usa,
13 Gennaio 2010

Oggetto recensito:

la risposta militare al terrorismo

giudizio:



7.02
Media: 7 (2 voti)

Commenti

Invia nuovo commento

Il contenuto di questo campo è privato e non verrà mostrato pubblicamente.
 
CAPTCHA
Questa domanda serve a verificare che il form non venga inviato da procedure automatizzate
Image CAPTCHA
Enter the characters (without spaces) shown in the image.