Terza puntata della serie di articoli, firmati dal direttore di Giudizio Universale, che prendendo spunto da un libro allargano il discorso fino a formulare delle proposte concrete per cambiare la società. L’egemonia sottoculturale, di Massimiliano Panarari, induce a riflettere sul fatto che la televisione deve tornare a educare e non solo a distrarre
di Remo Bassetti
Ho sempre pensato che, nel campo della comunicazione politica, l’ultimo slogan efficace coniato dalla sinistra sia stato “Tutto il potere ai soviet”. La circostanza si può leggere positivamente, quale riluttanza morale a piegarsi a basse esigenze mistificanti, oppure negativamente, come sostanziale incapacità di comprendere la modernità comunicativa. Eppure, si lamentano a destra in Italia, la sinistra da cinquant’anni ha occupato i tutti i centri di produzione culturale: dalle scuole alle università, dai giornali alle case editrici. Questa critica viene rappresentata come deplorazione della “egemonia culturale della sinistra”, termine che, vittime della sindrome di Stoccolma, gli intellettuali di destra hanno mutuato dal pensatore italiano di sinistra per eccellenza, Antonio Gramsci.
E tuttavia Gramsci ha inventato anche il termine “nazionalpopolare”, che la sinistra sprezzantemente adopera per definire gli intrattenimenti di massa propinati dalla televisione. A questo punto dalla destra sorridono e dicono agli interlocutori: lo vedete quanto siete snob? Come mostrate fastidio proprio verso le manifestazioni espressive delle quali si sollazzano quei ceti di cui sostenete di avere cura? Tié. Voi scrivete pure i vostri libri (benché rabbia, rabbia, rabbia, che noi non se ne possa scrivere altrettanti) ma nel paese, politicamente, contate sempre meno. E comunque (benché rabbia rabbia rabbia come sopra) non vi illudete che quelle vostre chiacchiere da soloni, o le opere artistiche di cui cantate le lodi, valgano più delle canzonette che deridete, dei telefilm o del Grande Fratello.
Ora, secondo Massimiliano Panarari l’egemonia culturale e il nazionalpopolare si saldano nel concetto di “egemonia sottoculturale”. Nel senso che il controllo ideologico sulle classi inferiori è nelle mani della destra populista, la quale ha provveduto a sdoganare certi comportamenti gretti, volgari e individualistici attraverso i programmi televisivi con un’operazione che non è affatto incolta. E’ invece un’accorta strategia del carnevale permanente, nella quale brillano persino insegnamenti situazionisti, cosicché i vari Signorini, Antonio Ricci, Maria De Filippi possono a buon diritto considerarsi i nuovi intellettuali organici, funzionali alla riproduzione del consenso attorno a certi dubbi valori della classe dominante. E’ in un certo senso, nonostante il non celato disgusto estetico/morale dell’autore, un’investitura di dignità, se non fosse che la qualifica di “egemonia sottoculturale” proviene da uno scritto pubblicato dall’editore, Einaudi, che per anni è stato il simbolo della “egemonia culturale”: a dimostrazione che anche il “sottoculturale”, se vuole trovare una patente di riconoscimento quanto meno politico, ha bisogno di una certificazione rilasciata da un attentatore abilitato quale “culturale”. E però, a rendere ancora più inestricabile il guazzabuglio, la proprietà economica dell’attestatore culturale è del diretto beneficiario politico dell’egemonia sottoculturale, anzi di colui che l’anima e le offre il modello sociale di riferimento.
Gli intrecci non finiscono qui. Il recensore forse più attento del volume è stato, sul Sole-24ore, Andrea Romano, già direttore editoriale proprio della saggistica Einaudi, dalla quale ha divorziato perché il suo intento di contaminare dall’alto l’egemonia culturale, attraverso la pubblicazione di autori, opinioni e temi eterodossi, era stato pubblicamente sconfessato dall’Einaudi stessa. Del libro di Panarari egli ha mostrato apprezzamento per la parte descrittiva e per la considerazione che la sorregge, cioè che la televisione è lo specchio del paese e lo descrive benissimo, ma perplessità dinanzi alla prospettiva pedagogica che Panarari sembra voler riproporre. Il professor Cutolo di Una risposta per voi sembra definitivamente confinato in soffitta da Simona Ventura.
Personalmente invece, considerando che magari con parole diverse la costruzione mediatica del consenso (alla maniera del Grande Fratello, non di Minzolini) ce l’abbiamo presente tutti, trovo che lo spunto più stimolante sia proprio il rinvio alla pedagogia, della quale la sinistra sembra ormai vergognarsi. Bersani che va al festival di Sanremo perché nella tradizione del Pci ci sono le feste dell’Unità con le salsicce, la musica e il sabato scaccia malinconia per il poveraccio è, oltre che un individuo che ha smarrito ogni cognizione del rapporto tra autenticità e inautenticità, il paradigma di come la sinistra abbia abdicato a ogni tentativo di educare il popolo a una qualche categoria di valori. Che è un modo di volergli bene un po’ più sano del rallegrarlo con i culi sventolanti, oltre che una strategia politica più fine dell’inseguire perennemente l’avversario sul suo terreno. Naturalmente, ciò che si dovrebbe insegnare non è aderire a un’ideologia piuttosto che un’altra, bensì ad appropriarsi di strumenti intellettuali adeguati per optare, più o meno consapevolmente e con uno straccio di senso civico e comunitario, per una qualsivoglia ideologia invece che per una sua deiezione.
MANIFESTO PER LA PEDAGOGIA
Ogni aderente rivendica con forza le necessità di un canale televisivo pubblico che, indipendentemente dalla stretta logica commerciale e dal controllo politico, favorisca l’educazione e “l’aggiornamento umano” dei cittadini, attraverso trasmissioni che, travalicando nei limiti del possibile i fatti di attualità, rendano familiari i temi che danno un senso e un orientamento alla vita in comune.
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