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TEATRO

Un Edipo capitalista per Ronconi

Il regista mette in scena La compagnia degli uomini di Edward Bond, cupo dramma sui rapporti famigliari e sociali. Con un cast di grandi attori e, per una volta, senza complicati allestimenti


di Sergio Buttiglieri

 


Vi siete mai trovati di fronte a chi non crede in voi? A chi è sicuro che non abbiate i numeri per prendere il suo posto? E’ un po’ quello che in questo spettacolo ronconiano capita al Leonard interpretato da Mario Foschi - sorta di Amleto mascherato - di fronte al padre adottivo Oldfield, un capitalista d’antan (“Maltrattare la servitù è segno di debolezza di carattere. E io non posso permettermi di maltrattare il mio Direttivo”),  ben restituitoci dal vitale Gianrico Tedeschi. 
 
Oldfield è un imprenditore della vecchia scuola, di quelli che forse tutti mitizziamo un po’, convinti che siano migliori degli attuali capitalisti rampanti, profondamente cinici e privi di morale, se non quella del puro guadagno a tutti i costi. Questi ultimi sono qui ben rappresentati da Hammond/Carlo Valli: “Pensa con la bocca aperta. Mangia tutto..”. A dispetto delle apparenze, il percorso di Oldfield è seguito come una stella cometa dal commercio di armi, e Hammond pensa a quel che resta, dopo. 
 
verticale ombre.jpgE così noi finiamo per identificarci nel disarticolato servitore Bartley/Paolo Pierobon, dalla strana lingua contaminata da dialetti primordiali e dall’oscuro passato, sempre pronto a mettere il becco negli affari dei suoi padroni fino alla morte del più giovane, che non trova di meglio che impiccarsi malamente, dopo che tutto il suo piano per impossessarsi del potere va a ramengo. E facendolo, per sopportare il dolore di una vita che non ha saputo vivere, finisce per stringere fra i denti il testamento estorto all’ultimo momento al vecchio. Ma la sua morte sarà ancora più lenta e inefficace della vita: tra uno spasimo e l’altro, tenterà invano di uccidere, con ironico retrogusto cecoviano, il perfido Hammond seduto accanto a lui: “Un morto ha tentato di uccidermi”. Non c’è limite alla voglia di dominio sugli altri: “Se mi prendo tutto quello che hai e tu non mi odi, mi sentirei rapinato”. 
 
Il resto della storia è occupato da vari personaggi che vanno dall’opaco capitalista-feccia, Eric Wilbraham/Giovanni Crippa, che non riesce a far quadrare i conti, al contabile che fa il triplo gioco, Dodds/ Riccardo Bini. E tutti concorrono alla rappresentazione della miseria umana: “Gli uomini rendono vere le loro peggiori paure e le chiamano fato, ma in realtà si tratta solo delle loro cattive abitudini”. Forse, la figura più solida qui in mezzo è quella del vecchio Oldfield. La sua visione del mondo gli permette di vedere meglio le debolezze degli altri. Lui non è ancora intriso di bunga bunga, è semplicemente una macchina da guerra che non sa fare altro: “Ci resta solo un buon amico affidabile, il nostro nemico. Costruiamo la nostra vita credendo in lui, e lui è sempre al nostro fianco”. 
 
Il rapporto edipico tra lui e il figlio adottivo è da manuale: “Tu sei morto. Anch’io lo sono. Non te lo voglio nascondere. Tu vai a spasso e respiri, ma io ti ho ucciso anche di più che se fossimo stati sepolti assieme e ti avessi ucciso nella nostra bara”, se non bastasse la citazione da Re Lear “criticano i figli e poi li cacciano”. Non c’è bisogno che terminino le 3 ore e quaranta dello spettacolo per sapere che Leonard sarà vittima di se stesso. Che il capitalista cinico avrà la meglio su di lui. 
 
verticale.jpgEdward Bond, uno degli autori più fertili della scena inglese, che Ronconi aveva già affrontato nel 2006 in occasione delle sue cinque dibattute regie olimpiche torinesi, non ha bisogno di fare tante metafore, è maledettamente serio e diretto. La breccia nel muro da cui osserviamo la vicenda è quella che solitamente non riusciamo ad abbattere per vedere dal di fuori le logiche che regolano la nostra esistenza. Che alla fine è costantemente imbavagliata da chi ci domina, con più o meno tatto, da chi ci convince che dopotutto non si può vivere che così, allietati dall’ultimo iPhone, o dalla casa nel quartiere giusto in cui rifugiarsi esausti dopo una giornata ricca di frustrazioni in attesa di mollare tutto, anche se sappiamo che non avremo mai il coraggio di farlo, troppo coccolati dai benefit di chi ci vuole produttivi. Perfetti manovali di un sistema sofisticato che non ammette soste se non quelle del nostro funerale. 
 
Il regista questa volta non ha avuto bisogno di complesse e costose “ronconate”: tutto scorre carico di antico pathos col solo artifizio della parola, recitata su semplici poltrone ottocentesche collocate in uno spazio vuoto privo di scena, con tanto di uscite di servizio e muri imbiancati da cui traspaiono i mattoni. 
 
Bond aveva scritto il testo negli anni Ottanta in pieno boom post capitalistico, eppure non vi percepiamo nessun inebriamento craxiano. E’ piuttosto Brecht quello che fa capolino da questi discorsi militanti: “La gente deve mangiare. Prima viene il bisogno e poi la rapacità - quindi la paura - e poi di nuovo il bisogno. Ecco perché la gente vorrà sempre le armi. Io li nutrirò e li armerò – e se pagano li trasporterò – gli darò le case. Costruirò i loro rifugi – li divertirò – li vestirò: e gli creerò i loro abiti civili splendenti come vorranno, in forma di divise militari – perché saranno tutti in prima linea”….



Tags: amleto, capitalismo, edward bond, gianrico tedeschi, la compagnia degli uomini, Luca ronconi, padri e figli, piccolo teatro di milano, Sergio Buttiglieri, teatro grassi,
03 Febbraio 2011

Oggetto recensito:

LA COMPAGNIA DEGLI UOMINI, DI EDWARD BOND, REGIA DI LUCA RONCONI

Produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Traduzione: Franco Quadri e Pietro Faiella
Visto: al teatro Grassi di Milano, dove è in scena fino al 26 febbraio, poi in tournée da stabilire
La frase: “La nostra amicizia è basata sul tradimento. Non molte amicizie hanno basi così solide, figlio mio. Di solito è riservato alle storie d’amore”

giudizio:



5.249997
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