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TEATRO

Un Machiavelli tutto da ridere

La compagnia di Ugo Chiti mette in scena La Mandragola, commedia nera del nostro Cinquecento. Umorismo ruvido e musiche ataviche per una storia di corna e intrighi in cui la parola è protagonista


di Igor Vazzaz

Fotografie di L. Bojola


Una commedia austera, acuminata, solenne e tesa come la corda d’un arco, geometrica, fine d’una stilizzazione sofisticata e mai gratuita, così coerente con la lingua desueta e moderna, inconfondibile, di Ugo Chiti. Inutile sperperar tempo e fiato in sguerguenze: Arca Azzurra è, da decenni, tra le migliori realtà della scena italiana, compagnia di giro quasi all’antica, quasi famigliare, così periferica, resistente e orgogliosa, portatrice di un mondo, di un teatro, di un idioma, da sempre frutti di lavorio profondo e rigoroso. E i risultati, non da ieri, si vedono: come questa Mandragola, perfetta macchina teatrale allestita secoli or sono dal geniaccio viperino di Machiavelli, aspra commedia nera e, al contempo, disincantato dramma filosofico sull’umanità o, meglio, sulle di lei inevitabili miserie.
 
mandra.JPGIl capolavoro del nostro teatro cinquecentesco è filtrato con abilità, capo e piedi inzuppato nella poetica chitiana del grottesco, secondo i codici spietati d’un umorismo ruvido, che non offre requie né liberazioni, tanto si fonda su una smaliziata coscienza della fisiologia e su una ben peggiore sfiducia a proposito della presunta moralità dell’uomo. In un quadro scuro, predominato dalle fosche tinte del fondale e da un’inquietante linearità, si dà un piano inclinato discendente verso la platea, al cui termine opposto troviamo l’entrata principale, portale e passaggio d’evidente astrazione. Ai lati della rampa, figure umane sedute su blocchi vermigli, al centro, un personaggio solitario, femmineo demone teatrale, coagula in sé le ninfe e i pastori a cantar l’argomento. Illustra al pubblico i protagonisti uno a uno, ogni volta lanciando verso l’interessato un lungo bastone ligneo, rito d’evocazione scenica, come se quel passaggio d’oggetto vivificasse anime e corpi altrimenti immoti nell’obliata fissità del testo. Che la recita inizi.
 
mandra3.JPGLa vicenda è nota, o almeno dovrebbe esserlo: sapido intreccio d’appetiti sensuali, corna e coglionamenti, al termine del quale nessun valore si salva alla chirurgia drammatica machiavelliana: Callimaco (che l’autore presenta quale amante meschino) riesce a giacere con la bella e coscienziosa Lucrezia, sposa di Nicia, vecchio bacucco con velleità di riproduzione tardiva. Il tutto grazie alla connivenza pelosa del servo Siro, dell’amico Ligurio, di un frate corrotto, Timoteo, e della madre della fanciulla, Sostrata, inconsapevole dell’inganno, benché decisiva nella sua messa in atto. La conclusione non dà scampo a nessuno: Lucrezia scopre l’intrigo e decide di prendere il giovane lascivo come amante segreto, punendo così l’idiozia del marito e perpetrando quindi una vita di foia e inganno. Ma è nel farsi carne e sangue d’attore che il verbo di ser Nicolò acquisisce la meritata profondità d’una lingua terrosa, d’organica concretezza, in cui gli inediti innesti firmati da Chiti trovano agio e spessore: la recitazione d’Arca Azzurra, così aderente all’idioma, in emorragico contatto col personaggio eppure in grado di creare interstizi tra attore e carattere, brilla nella sua mai sufficiente lodata differenza rispetto alla media nazionale di un’asettica ed esangue standardizzazione linguistica. 
 
mandra4.JPGDimitri Frosali è uno splendido Nicia, con quella voce a tratti gutturale, stolto vecchiaccio pronto a farsi buggerare, così come lodevoli sono, al solito, il fratesco Massimo Salvianti nei panni di Timoteo e, per non poter citare tutti, la magnifica Lucia Socci nella parte più affascinante, spigolosa e luciferina, quella del citato Prologo. Ottima la selezione musicale nell’alternanza di temi medievali, così atavici da scavar dentro rivoli d’emozioni sepolte, e sinistre sonorità dissonanti: modulazione indovinata e coerente ai colori e i ritmi della messinscena. Tempi e movimenti sempre esatti, concedendo nulla al ribobolo superfluo, ottimamente calibrati in una scenografia antimimetica e rarefatta.
 
Ride il pubblico del bel Teatro Dante di Campi Bisenzio, forte d’una complicità linguistica evidente, ma non indispensabile: ride e, se proprio si vuol muovere un minimo rilievo a uno spettacolo che corre lungo il limite dell’inappuntabilità, potrebbe ridere di più, ché materia da sghignazzo feroce e mai consolatorio ve n’è a sfare. Chiti, non rinunciando a un umorismo cupo e disincantato, a tratti verde, tannico, preferisce far di questo reticolo di pulsioni, meschinerie e imbrogli, un impietoso groppo rappreso, triste eiaculatio senza godimento: dopo tutto, ha ragione Nicia, quando, giusto in tema, si chiede a che pro valga tutta quest’uggia, questo affannarsi miserabile, risolto in quello che, alla fin fine, è solo un vano "sputo di piacere".



Tags: arca azzurra, Igor Vazzaz, la mandragola, nicolò machiavelli, recensione, teatro dante di campi bisenzio, ugo chiti,
10 Febbraio 2011

Oggetto recensito:

Mandragola, di Nicolò Machiavelli, regia di Ugo Chiti

La locandina: Ugo Chiti, ideazione dello spazio, adattamento e regia; Giuliana Colzi, costumi; Marco Messeri, luci; Vanni Cassori e Jonathan Chiti, musiche; e con Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Lorenzo Carmagnini, Giulia Rupi, Paolo Ciotti; produzione Arca Azzurra Teatro
Prossimamente in scena: 12/2, San Gavino (Vs); 13/2, Lanusei (Og); 17/2, Campiglia Marittima (Li); 26/2, Scansano (Gr); 6/3, Città della Pieve (Pg); 18/3, Porto Ferraio (Li)
La mandragola: solanacea dai fiori violetti o bianchi, le cui radici, invero tossiche, sono state per secoli considerate medicamentose; nell’imbroglio, è alla base della pozione che renderebbe fertile Lucrezia, comportando però la morte del primo che giacesse con la fanciulla

giudizio:



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