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FILM

Ruggine, manca la parola

La consacrazione di Daniele Gaglianone al cinema 'mainstream' passa da un film tratto dal romanzo di Stefano Massaroni: prima bambini, poi cresciuti, i suoi personaggi metropolitani sono i testimoni quasi 'muti' di terribili episodi di violenza. Da stasera nelle sale


di Sandra Petrignani

 


Il punto di forza di Ruggine, opera della piena maturità di Daniele Gaglianone, è aver raccontato per immagini e suoni, mettendo in secondo piano la parola. Pur essendo basato su un libro, infatti (un omonimo romanzo einaudiano di Stefano Massaron), Ruggine non poteva contare su dialoghi coerenti e articolati o sull’intreccio misterioso di una trama che si svela strada facendo. Per due motivi molto semplici: narra una società di bambini in un’area degradata e le pulsioni preverbali e perverse di un pedofilo, che si sa da subito autore di crimini imminenti
 
Questi bambini, che vivono e giocano in banda, alternando violenze varie (fra loro, sugli animali) a momenti di confusa tenerezza, hanno col linguaggio, come con tutto il resto, rapporti primitivi, si capiscono a gesti, a sguardi, e parlando una disarticolata elementare koiné. Come i loro genitori, sono costantemente avvolti dal rumore, sprofondati nel chiasso metropolitano, costretti a mitigare i propri diversi dialetti meridionali per comprendersi nella città nordica dove sono trapiantati. Quando quel chiasso si allontana perché raggiungono la sterpaglia di un campo di periferia, dove due silos rugginosi e in abbandono diventano il loro castello incantato, la roccaforte dei loro giochi segreti, sono essi stessi a riprodurre rumori assordanti di lamiere e sassaiole. Non conoscono il silenzio. Il silenzio li sorprenderà alle spalle e sarà quello della morte brutale di due loro piccole amiche stuprate e massacrate.
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Non ho letto il romanzo e non so come se la sia cavata l’autore. Queste storie tremende di bambini abusati e distrutti da adulti fuori controllo intrigano gli scrittori contemporanei con un effetto spesso di inutile ridondanza rispetto alle già esorbitanti cronache. Il realismo dominante rischia il compiacimento quando non impietosi effetti horror. Al cinema il rischio si fa più alto, perché le immagini sono più esplicite delle parole. Ma azzerando la parola, mescolandola al frastuono e alla sporcizia di una presa diretta al limite del decifrabile, sottolineandola con una musica che magari non è assordante, ma di sicuro lo sembra e lo diventa, il film fa esplodere perfettamente le contraddizioni sociali e caratteriali dei personaggi e introduce il Male - rappresentato dal medico pedofilo, più afasico di tutti gli altri personaggi tanto che si esprime per lapsus, citazioni smozzicate e arie d’opera - non come elemento contrapposto a un qualche Bene, ma quasi proliferazione dell’indecente situazione in cui questa povera umanità, adulta e infantile, è costretta a vivere e a crescere.
 
La ferita dell’infanzia contaminata si protrae nell’età adulta. Tre di quei bambini scampati (si fa per dire) alla tragedia che li ha coinvolti da piccoli, li vediamo in tre momenti della loro vita da grandi. Stefano Accorsi gioca con suo figlio in una casa da traduttore spiantato e divorziato, ingombra di oggetti, libri e scartoffie. Valerio Mastandrea sproloquia in un bar da disperato semibarbone, Valeria Solarino legge Cime tempestose e cerca afasicamente di farsi valere in un consiglio scolastico. Molto bravi tutti e tre, tutti e tre ben guidati a far emergere l’umanità ferita da minimi tic apparentemente insignificanti, distrazioni improvvise, eccessi di movimento.
 
E anche qui la parola è sempre pasticciata, aggrovigliata, pronta a spegnersi in una smorfia. Altrettanto bravo Filippo Timi nei panni del pedofilo inconsapevole di sé e quindi sfrontato, spesso fuori fuoco come la sua insondabile “anima”, capace di un (quasi invisibile) sorriso di soddisfazione quando corre sulla scena del delitto come soccorritore e medico, l'unico a sapere la verità dei crimini.
 
Peccato davvero, in tanto rigore di regia e di interpreti, la caduta inspiegabile da soap televisiva del bozzettistico consiglio dei professori. Mentre una menzione speciale va alle musiche, grosso sostegno espressivo della storia, del trio Fornasier, Magri, Miride, che potenziano l’universo tribale e rumoroso, privo di riferimenti culturali, morali, artistici.
Comunque su tutti giganteggiano i bambini a cui la vicenda assegna non solo la parte di vittime, ma anche di epici eroi di una favola che, se non finisce bene, almeno conosce il riscatto di una lotta comune e vincente sul Male. Questo nelle favole è possibile. Nella vita, come significativamente dice il film (in una scena che si rischia di perdere se ci si alza sullo scorrere dei titoli di coda) no.



Tags: abuso, bambini, Daniele Gaglianone, Filippo Timi, recensione, Ruggine, Sandra Petrignani, Stefano Accorsi, Valeria Solarino, valerio mastandrea,
02 Settembre 2011

Oggetto recensito:

Daniele Gaglianone, Ruggine, Italia 2011, 109 m

 

giudizio:



9
Media: 9 (16 voti)

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