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ATTUALITA' - WEEKEND

Coltelli d'Italia

L'inno nazionale, dalla brevissima e sfortunata vita del poeta Goffredo Mameli alle insofferenze leghiste


di Giampaolo Rugarli

 


Sembra che non piaccia a tutti celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. In tesi generale potrei anche essere d’accordo: non mi piace lo stesso verbo “celebrare”, per i suoi contenuti enfatici, retorici e apodittici. Ma per l’Unità patria farei un eccezione: si tratta di un evento tendenzialmente negletto e, peggio ancora, non conosciuto, laddove sono moltissime le pagine dalle quali tutti potrebbero trarre preziose lezioni di vita. Esemplare è il caso del poeta Goffredo Mameli, genovese, il cui nome è legato all’inno nazionale senza che si sappia o si dica altro del suo autore. E anche il povero, infelice inno viene variamente criticato, quando, come usa a Varese, non venga dimenticato e sostituito da una canzonetta scaccia pensieri.
 
Non sarà inutile ricordare che Mameli era uomo di penna, non certo di armi: nel 1927, in occasione del centenario della nascita, tutti i suoi scritti furono pubblicati, a cura di Ernesto Codignola, dalle neonata casa editrice La Nuova Italia. Mameli non è né un Foscolo né un Leopardi: forse lo sarebbe diventato, se avesse avuto vita meno breve, ma la sua memoria merita qualche cosa di più del canto Fratelli d’Italia. La sua umana esperienza fu segnata, oltre che dal fervore risorgimentale, da un amore sfortunato: il Codignola ci informa che tale Geromina Ferretti fu la bella sdegnosa, tanto sdegnosa che sposò un altro. Goffredo si abbandonò a cupi pensieri, e forse non è una illazione azzardare che la fine prematura se la andò cercando.
 
Morì a ventidue anni. Dico: a ventidue anni. Mazziniano, nel 1848 partecipò alle 5 Giornate di Milano e, l’anno dopo, fu a Roma per difendere la Repubblica Romana (a quel tempo lo Stato della Chiesa non aveva problemi di pedofilia: in compenso non smetteva di gingillarsi con la pena capitale e con la ghigliottina). Goffredo fu seriamente ferito, sebbene non mortalmente: purtroppo le cure non appropriate provocarono la cancrena e, nel giro di poche settimane, tra sofferenze atroci, il poeta volò nella “eterna luce” (sono parole di una sua poesia).
 
L’inno Fratelli d’Italia fu composto nel novembre del 1847 e fu subito musicato da Michele Novaro, buon amico di Mameli: pochi giorni dopo, a Genova, il canto ebbe pubblica esecuzione ed entusiasmò la folla accorsa ad ascoltare. Dopo di allora il successo dell’inno fu travolgente, e non è esagerato affermare che scandì tutte le vicende dell’Unità compiutasi nel 1918, al termine della Grande Guerra. Non a caso, alla caduta del fascismo, si volle che diventasse l’inno nazionale. Allora perché, in tempi recentissimi, giungono segnali di insofferenza e si verificano minimi episodi di contestazione, non so se più stupidi o più volgari?
 
Le parole scritte da Mameli sono ingenuamente letterarie, si afferrano ai fantasmi del passato e abbracciano tutta l’Italia: vi è la Firenze di Francesco Ferrucci, vi è la Sicilia dei Vespri, vi è Legnano - non quella di Antonella Clerici ma quella dove il Barbarossa viene sconfitto - e vi è il genovese Giovanni Battista Perasso alias Balilla. Non vedo come il messaggio possa non essere condiviso: “Uniamoci, amiamoci! / L’unione e l’amore / rivelano ai popoli / le vie del Signore” si dice, e poco prima: “Noi siamo da secoli / calpesti e derisi / perché non siam popolo, perché siam divisi; / raccolgaci un’unica / bandiera, una speme; / di fonderci insieme / già l’ora suonò”. È palese che queste parole possono disturbare solo chi vagheggia il federalismo e (se possibile) la secessione: e, nell’Italia del XXI secolo, sconcerta che i predicatori di queste sciocchezze non solo vengano lasciati liberi di blaterare, ma addirittura vengano inclusi tra le forze di governo. E gli arruffapopoli, se non soddisfatti presto e bene, minacciano di usare le cattive maniere: dieci milioni di camicie verdi potrebbero impugnare le armi per la libertà della sedicente Padania. Cazzarola! Se resuscitasse, Mameli sarebbe a dir poco sgomento.
 
Accantonando il peso dei sentimenti (s’intende, per chi di sentimenti è capace), da Adamo ed Eva in poi si dice che l’unione fa la forza, e comunque oggidì gli studiosi di organizzazione economica concordano sulla circostanza che decentrare serve solo a moltiplicare spese e inefficienze. Con buona pace di Umberto Bossi e di larga parte della nostra classe politica, le teste pensanti hanno messo a profitto la rivoluzione informatica. Un esempio in casa nostra? Venticinque anni fa le casse di risparmio, tra grandi, piccole e piccolissime, erano un centinaio: adesso non c’è che una pattuglia residuale, perché il grosso del contingente è stato assorbito da istituti di credito maggiori.
 
Ma è uno sproposito attribuire ai separatisti della Lega cultura e discernimento. Purtroppo (l’ombra di Mameli si rassegni) sono guidati dai risentimenti più che dai sentimenti, e, nell’Inno nazionale, ignorando tutto il resto, ciò che più li disturba sono i versi in cui si asserisce che Iddio creò l’Italia “schiava di Roma”: in realtà il passaggio ha una qualche ambiguità, e si potrebbe congetturare che non l’Italia, ma la vittoria sia in condizione di servaggio. Vorrei rammentare che la Roma cui si riferiva Mameli non è quella di Mussolini, dell’EUR, di Piacentini, ma quella di Gigi Magni, di Giuseppe Giocchino Belli, dei rigatoni con la pagliata. Quella del Papa re, dove la grandezza spettava non più che ai ricordi e il Colosseo era una cava di pietre.
 
A Goffredo si può perdonare una certa dose di enfasi, di esagerazione retorica: conta solo il concetto, ossia che Roma, nel bene e del male, da poco meno di tremila anni è il cuore della storia e della civiltà italiana. Non si tratta di decentrare i ministeri a Gorgonzola o a Brembate Sotto: si tratta di diminuirne drasticamente il numero, di snellirne le funzioni, soprattutto di assottigliare una classe politica che a Roma ladrona vuole sostituire o aggiungere Milano ciappadanè.
 
Goffredo Mameli era un bel giovane e il suo volto rivelava la pulizia dell’anima: tanto appare da un ritratto dell’epoca, e singolarmente la stessa nobilità di intenti traluce da vecchie immagini degli eroi risorgimentali, Daniele Manin, Amatore Sciesa, Tito Speri, Luciano Manara, Attilio e Emilio Bandiera, Carlo Pisacane e altri, guarda caso tutti padani DOC (con la sola eccezione di Pisacane). Provo a stabilire un confronto con le facce dei Cota, dei Salvini, dei Calderoli, dei Maroni, dei Castelli, dei Bossi (padre e figlio, specie l’erede quando sorride nonostante la sfortuna negli studi), e mi ritraggo in preda a una indefinibile sensazione di sconcerto. A meno che vi sia qualcosa di vero nella teoria fisiognomica elaborata da Lavater duecento anni fa, quella che vorrebbe che nel viso e nell’espressione stia scritto il “chi è” di ciascuno di noi.



Tags: federalismo, Fratelli d'Italia, Giampaolo Rugarli, Goffredo Mameli, inno nazionale, lega, risorgimento, roberto calderoli, secessione, umberto bossi, unità d'italia,
02 Luglio 2010

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