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ARTE

Zoran Music, il pittore della memoria

In mostra a Venezia l'artista che mise al centro dei suoi dipinti i ricordi: da quelli felici dell'infanzia in Dalmazia a quelli tragici dei campi di concetramento nazisti


di Mauro Perosin


L’opera di qualsiasi artista ed in particolare di un pittore si potrebbe paragonare a un tessuto che è vitale in proporzione delle cellule vive e organiche che contiene.Vi sono artisti pieni di talento, ma l’opera dei quali manca di questo dono fondamentale ad un’opera che speri di vivere un po’ più a lungo del momento in cui nasce, e del resto l’idea brutale dell’aborto è corrente (Filippo De Pisis, Venezia 1944)

 
ultimi.JPGInfonde morbida vitalità una bella immagine fotografica che ritrae l'artista Anton Zoran Mušič (1909-2005) consacrato dalla retrospettiva che gli dedica l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti a Palazzo Franchetti, sul Canal Grande a Venezia. Un omaggio al pittore errante di origini slave, nato in una Gorizia ancora asburgica e che a Venezia trovò il suo oriente favoloso.
C’è la dimensione del ricordo alla base della genesi delle opere di Mušič, selezionate con accuratezza e allineate in mostra. E che cosa significa ri-cordare? Vuol dire “portare al cuore”, portare al cuore ogni momento di emozione interiore e di raccolta intimità; del resto il tema della sfinita solitudine di chi crea - seppure la vita sia prodiga di riconoscimenti - è troppo ricorrente nella storia degli artisti.
 
Da una parte il ricordo è vissuto da Zoran Mušič come un adesso gioioso per qualcosa che non è più presente ma che appartiene solo al passato. Quando si evocava Gorizia, Mušič sovente affermava che “Gorizia era la piccola collina”; e la Dalmazia, il brullo Carso che amava in quanto terra d’infanzia, ritorna con i dolci colli in Motivi dalmati (1935-1949), paesaggi evocativi del reale, e trasposizione confidenziale della prima età intesa come luogo della mente, e non solo come ingenua stagione dell’individuo.
Dall’altra parte la violenta tempesta con cui si scatenò il male fisico e morale dell’umanità: il fiume del ricordo trova la sua voce nel disegno che inizia a raccontare e che è per Mušič intima espressione. Segni, testimonianze, abbozzi, racconti di mera e confitta esistenza: il nefando Dachau (dove fu internato nel 1944) ritorna con la serie Noi non siamo gli ultimi del 1970-74 (in alto): corpi senza vita accalcati, uomini-sagoma color nero e bianco, figure erose come se apparse nella dimensione del sogno - che sembra essere per Mušič l’unico modo per dare forma all’estremo.
 
ida.JPGE c’è l’amore, con Ida (olio su tela, 1986, a fianco). Ida Cadorin, la moglie pittrice, fonte di ispirazione inesauribile, il cui ritratto realizzato su sfondo color olio di pietra (senza farla posare) è come un’apparizione sensuale. Il suo volto sfinato come luce su polvere nera, le mani sincopate e la sua figura flessuosa, saranno particolari che riaffioreranno alla memoria in una forma liscia come l’olio, con labili tratti di colore su tela senza groviglio alcuno. Più che l’alone del ricordo, c’è l’appropriazione formale da El Greco, Goya (che copia durante l’anno in Spagna nel 1935), e ancora Klimt, Schiele, Kokoschka, dal quale deriva il sottile equilibrio del segno e il sapiente uso del colore decorativo-simbolico, complemento indispensabile per il segno marcato e assieme franto, incontrollato della pennellata o del pastello grasso, rigorosamente nero su carta.
 
figure grigie.JPGIn un celebre passo della sua letteratura artistica, Filippo De Pisis ricorda che Mušič era amante e cultore del tono, non del colore, e a proposito del suo segno scrisse: “Freme un po’ rude ma delicato e voluttuoso insieme”. Ad unire i due maestri, la crepuscolare malinconia che traspare con la tenacia acuta e ossessiva nella tematica del luogo. Meraviglioso il grado della luminosità e il briluccichio d’atmosfere sospese di bizantina memoria in San Marco (1988), oppure gli scorci riconoscibili di una Venezia che penetra nell’intimo, in un andirivieni di sensibilità colta per gli equilibri cromatici e per il colore cinerino dei piccoli quadri silenziosi Punta della Dogana, Canale della Giudecca, Molino Stucky (anni ’80-’90).
Il racconto intimo di Mušič continua con i necessari automatismi stesi su tele (sistemate per l’occasione su cavalletti) della serie Figure Grigie di fine anni ’90 (qui sopra), gli ultimi cerei autoritratti, dove l’artista impiegò l’immediatezza e la liquidità del tocco. “Il travaglio della forma che indaga le necessità esistenziali” è “l’imponderabile”, scriveva di lui Giuseppe Mazzariol. Figure polverizzate che ci invitano a distogliere lentamente il nostro sguardo impaurito dall’ineffabile e infinito disgregarsi del segno.


Tags: campo di concentramento, dachau, dalmazia, filippo de pisis, gorizia, ida cadorin, Mauro Perosin, memoria, ricordo, venezia, zoran music,
04 Febbraio 2010

Oggetto recensito:

ZORAN MUSIC. ESTREME FIGURE, Palazzo Franchetti, Campo Santo Stefano 2842, Venezia

Fino al: 7 marzo 2010

A cura di: Giovanna Dal Bon

Quando: tutti i giorni dalle 10 alle 18

giudizio:



9
Media: 9 (11 voti)

Commenti

Filippo De Pisis ricorda che

9

Filippo De Pisis ricorda che Mušič era amante e cultore del tono, non del colore, e a proposito del suo segno scrisse: “Freme un po’ rude ma delicato e voluttuoso insieme”. Ad unire i due maestri, la crepuscolare malinconia che traspare con la tenacia acuta e ossessiva nella tematica del luogo.jogos de carros

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