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FILM

127 ore, Icaro in trappola

E' il tempo per cui un giovane scalatore rimane prigionero nel fondo di un canyon, con un braccio incastrato nella roccia. Raccontando una storia vera, il premio Oscar Danny Boyle unisce i trascorsi psichedelici di Trainspotting con una parabola di autoaffermazione alla The Millionaire, per un film che parla di eroismo e solitudine. Da venerdì in sala


di Alessandra Minervini

 


Presentato in anteprima nazionale al 28° Torino Film Festival, dove è stato uno dei film più attesi e applauditi, 127 Ore è il nono lavoro cinematografico di Danny Boyle. Il regista che per una generazione è stato “quello di Trainspotting e che, dopo gli otto Oscar vinti l'anno scorso, sarà per sempre quello di Slumdog Millionaire (in Italia semplicemente The Millionaire). 
 
127 Ore, scritto con Simon Beaufoy (Oscar per Slumdog Millionaire e candidato anche quest'anno per la sceneggiatura non originale) è una sintesi matura tra la redenzione chimica dei tossici scozzesi e il sogno di auto-affermazione di Jamal Malik. E' un film sulla pulsione umana all'affrancamento individuale. La differenza, rispetto ai precedenti, è che Boyle ha abbandonato certi barocchismi retorici, prediligendo il simbolico, l'afflato filosofico. Per certi versi questo è un film anti-cinematografico. Il movimento della macchina da presa filma la mancanza di movimento. Una sfida parossistica che il regista vince al cento per cento.
 
127hours.jpgIl film è tratto da una storia vera. Nel 2003 lo statunitense Aron Ralston (interpretato da James Franco, aitante astro nascente di Hollywood, candidato all'Oscar come miglior attore protagonista) è un ingegnere meccanico di ventotto anni che, da alpinista sfrenato, decide di passare un weekend in solitario arrampicandosi sui canyon del Parco Nazionale nello Utah. Per la prima volta. Senza avvisare nessuno. Senza portare il telefonino. Durante l'arrampicata, smuove accidentalmente un masso, precipita e resta bloccato in una gora del canyon. Resta solo con qualche galletta di riso, meno di un litro d'acqua, un coltellino multiuso e una camera digitale. L'unico modo per non morire è amputarsi il braccio. Hai detto niente.
 
Nei titoli di testa Aron saltella da un lato all'altro della sua vita come un pazzoide. Uno che ama il silenzio che solo il frastuono quotidiano assicura. La macchina da presa lo insegue ma lui sembra sfuggirle. Brevi scene a scorrimento veloce, dialoghi a singhiozzi, il volume della musica cresce. Il montaggio psichedelico bene si addice alla presentazione di un eroe del nostro tempo. Un ragazzo che precede la vita. Che inghiotte tutto in un boccone. I primi venti minuti sono sicuramente i più esaltanti del film. La cifra stilistica è lo stupore. “Solo io, la musica e la notte”, urla. Sembra di stare dentro una dance floor elettronica dove il dj diventa lo spettatore che non può fare a meno di battere il piede, travolto dal sound. Il cervello spezzettato come lo schermo dove regna incontrastata la forma, quello split screen di cui Boyle è seguace dai tempi di Trainspotting
 
Poi Aron precipita. E il film cambia musica. Niente più rock. La malia avvolgente della colonna sonora originale (di A.R. Rahman, candidato all'Oscar) si alterna con momenti di vivida commozione sottolineati dalle note di Chopin e dei Sigur Ròs. Danny Boyle si mette dietro la macchina da presa per filmare un uomo che racchiude in sé l'isolamento in grandi dimensioni di oggi. Il fosso nel canyon dove Aron cade diventa la metafora dell'abisso mentale, della solitudine di cui si fa beffa solo chi non ce l'ha. La prigionia forzata di Ralston è la proiezione della visione ristretta con cui non riusciamo a vedere nemmeno noi stessi, figuriamoci gli altri. Bloccato com'è, Ralston non vede i suoi arti e il sole lo illumina di riflesso per quindici minuti al giorno. Per sopravvivere beve le sue urine, mangia qualsiasi insetto e racconta a se stesso delle storie. La coazione interiore diventa la condizione ideale, beckettiana, per inventare. 
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Ralston scrive con la sua telecamera una sorta di testamento alle persone che ama e anche a chi non ha fatto in tempo ad amare. Quando la batteria della digitale si scarica, diventa egli stesso un mezzo di comunicazione. Un totemico martire che per non impazzire ricorda il passato o immagina un futuro che non vivrà. Dentro una camera senza eco, privo di sensibilità, bersaglio della propria ambizione, Ralston ci si presenta come un Icaro Wifi, un arrampicatore testardo e un po' onanista. Nei cinque giorni di martirio, spesso ripete a se stesso: ho scelto io, ho scelto io. Illudendosi che esista il libero arbitrio anche quando si è schiacciati da un peso.
 
Danny Boyle è uno di quei registi che non si risparmia. Offre al pubblico tutto quello che ha. E' un artigiano. Anche anche quando sbaglia film (The beach), anche quando si rinchiude nel genere (Sunshine, 28 giorni dopo). Di sicuro non si è risparmiato nulla in 127 ore che racchiude tutti i generi messi insieme, scavalcando ogni definizione. Non c'è morale nel film. In pieno accordo con quanto diceva Stanley Kubrick, di cui Boyle si professa apostolo, quando dubitava del fatto che la morale della storia di Icaro dovesse essere “non tentare di volare troppo in alto”, invece che “dimentica la cera e le piume, e costruisci ali più solide”.



Tags: 127 ore, Aaron Ralston, Alessandra Minervini, Danny Boyle, Frederyck Chopin, James Franco, Oscar, Sigur Ros, Slumdog Millionaire, trainspotting,
24 Febbraio 2011

Oggetto recensito:

127 ore, di Danny Boyle, USA Gran Bretagna 2010, 90 m

 

giudizio:



7.515
Media: 7.5 (8 voti)

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