Il licantropo Benicio del Toro e il padre-padrone Anthony Hopkins si affrontano tra atmosfere gotiche e gesta splatter. E' Wolfman di Joe Johnston, un horror che racconta il trionfo dell'istinto sulla ragione
di Marco D'Egidio
Neanche a farlo apposta, in due mesi il cinema ha portato in scena due tesi opposte. Sherlock Holmes, il “fumetto” di Guy Ritchie tutto azione e deduzione, rappresenta la vittoria della ragione positivista sulla superstizione e la magia; al contrario, Wolfman, il remake di Joe Johnston dell’omonimo film del 1941, simboleggia il trionfo dell’istinto sulla civiltà della ragione: come se le leggi che ci impediscono di essere lupi gli uni con gli altri fossero una forzatura della natura umana cui, di tanto in tanto, non si può non trasgredire.
Semel in anno licet insanire, dicevano gli antichi. Nei boschi inglesi di fine Ottocento c’è qualcuno che non aspetta un anno e ogni notte di luna piena semina morte e distruzione. Nei villaggi limitrofi si parla di Wolfman, l’Uomo-Lupo. Il protagonista del film, Lawrence Talbot, fratello di una delle vittime del mostro, si impegna a scoprire il mistero. Peccato che abbia assistito, da bambino, alla morte violenta della madre e subito dopo sia stato spedito dal padre-padrone in un manicomio a Londra: il suo passato tormentato fa di lui il principale indiziato di Scotland Yard. Una notte di luna piena, Talbot viene morso al collo dalla belva e diventa un licantropo. Si ritroverà a vivere in prima persona, lui attore shakespeariano, la scissione fra umanità e mostruosità, fra l’amore per la fidanzata del fratello morto e la sete di sangue. Catturato dalla polizia, verrà internato nel manicomio dell’infanzia, ma di qui la Bestia riuscirà a fuggire per risolvere il complesso di Edipo e scoprire la luna negli occhi della sua Bella, non senza lasciare la sua sinistra eredità.
C’è quindi una speranza, anche in Wolfman, ed è la nobile passione dell’amore. E’ questa la porta che separa non l’uomo dalla bestia, ma la bestia dall’uomo. Per il regista, tuttavia, sembra esserci solo la bestia, tanto che la soluzione visiva, il rendering da B-movie del racconto finisce col condizionare l’equilibrio della trama, che procede fra lentezze (nella prima parte, incastonata nella cornice gotico-romantica che costituisce l’habitat di ogni mostro classico) e accelerazioni (nella seconda metà e nelle notti di luna piena). Il conflitto tra padre e figlio - tra un Anthony Hopkins sempre un po’ prigioniero di Hannibal Lecter e un Benicio del Toro che è sì un mostro, ma non di espressività - è delineato con qualche scorciatoia di troppo, soprattutto quando si rievoca il tragico passato della famiglia Talbot, e da perno della vicenda diventa l’incerta architettura che racchiude le gesta splatter dei licantropi, vero pallino del regista.
Ciononostante, Wolfman va salvato: negli effetti speciali che, malgrado il computer, ricordano il videoclip Thriller di Michael Jackson, nella plasticità da cartapesta di certe scene così come in una certa goffaggine degli uomini-lupo si cela un inusuale fascino rétro che riporta al 1941. Scelta artistica o debolezza, poco importa: perché lo spettacolo, tutto sommato, non manca, e neppure una discreta tensione. Fra diversi anni, ci penserà un qualche Tarantino a rivalutare Wolfman, che nel frattempo avrà occupato una nicchia nel filone dei film horror.
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Wolfman di Joe Johnston, Usa - Regno Unito 2009, 120 m.
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