Nella Verona che fu dei Montecchi e dei Capuleti, una quasi-scrittrice americana scopre la vecchia lettera di una donna, Vanessa Redgrave, che aveva smarrito l'amore della vita e decide di aiutarla. Una trama scontata, che fa il pieno di macchiette sul belpaese e trasforma il romanticismo in sdolcinatezza
di Andrea B. Previtera
"Una verificatrice di informazioni per il New Yorker sogna di diventare scrittrice"... La spia del sospetto dovrebbe accendersi già solo per questa prima premessa. Quando ci troviamo di fronte a X che sogna di diventare Y - il raccattapalle che vuole diventare un tennista, il ladro di galline che vuole diventare un serial killer - l’ingresso del cinema quasi sempre diventa un magico portale per Sdolcilandia. Ed in effetti è proprio così. Questo Letters to Juliet, che ha tardato un anno prima di giungere nelle sale italiane, poteva aspettarne senza danno anche un altro, o cinque, o meglio ancora dieci: chissà che nel frattempo non si fosse inventato un vaccino contro la scontatezza e la melassa.
Una verificatrice di informazioni per il New Yorker sogna di diventare scrittrice. Hm. Ha un fiancée giovane cuoco di belle (buone?) speranze e discrete finanze che sta per aprire un suo ristorante. Se ne vanno in Italia, a Verona, in pre-luna-di-miele (qualunque cosa voglia dire) per unire l’utile al fidanzevole e trovare fornitori di pregio. Lei incontra le Segretarie di Giulietta, donne che rispondono alle lettere indirizzate al secolare cadavere. Poi scopre una missiva perduta vecchia di cinquant’anni, vi dà seguito, ed ecco arrivare la mittente – una vegliarda inglese che vuole ritrovare il perduto amor, con a seguito un nipototto appena più piacente e meno irritante del fidanzato della bella protagonista. Il resto segue.
E ve lo potete immaginare il resto, vero? Perchè non c’è niente in questo film che abbia una qualunque parvenza di – non oso chiedere originalità – ma imprevedibilità se non altro. Persino il mattone del muro del balcone di Giulietta, dietro cui Sophie troverà la lettera misteriosa (ingiallita per bene con i metodi di Art Attack per creare mappe del tesoro), appare mobile fin dal principio d’inquadratura, come nei film d’animazione degli anni '50. Un’irrimediabile, recidiva scontatezza, modulata sulla forma d’onda dell’amore che vince su tutto. E ancora, una narrazione articolata su meccanismi puerili e irrealistici, pur perdonabili in teoria ad una pellicola che non avesse poi pretese di verismo, con le riprese in cantine sociali e salumifici del veronese realmente esistenti (e con tanto di proprietari pigiati a forza nel cast).
Ci sono però da elidere l’abbondanza di splendidi paesaggi italiani e la presenza di peso di Vanessa Redgrave (nei panni della settantenne dal cuor di bimba): a completare il pasticcio ci penserà con disinvoltura il resto della banda. In primo luogo Gael Garcia Bernal che si sbraccia come una penosa marionetta per tutto il tempo e ci regala una plasticità facciale degna di Franco Franchi. Poi l’ampio teatro delle partecipazioni italiane – minori e maggiori – che mettono grande impegno nell’aderire fedelmente alle peggiori caricature americane sul nostro paese. E una parola va spesa per il costante intreccio linguistico: sarete esposti ad un’alternanza di italiani che biascicano nella lingua d’oltremanica e sottotitolati nella nostra, e di americani che italianamente inciampano nella pronuncia ma non nei congiuntivi.
Ci sarebbe ancora da discutere del fatto che nella visione del mondo del regista Gary Winick ogni vecchio contadino di paesello toscano parli un discreto inglese, dei matrimoni decisi e organizzati come si trattasse di andare a fare la spesa, di “oh oh scioccona ma che hai capito è mia cugina, è che lei e la mia ex hanno lo stesso nome”. Ci sarebbe ancora da discutere della presunta aura romantica della trama, costruita non tanto sull’ipotesi dell’”anima gemella” quanto sulla quella più opinabile che ogni rapporto possa essere cancellato come un errore e velocemente rimpiazzato da tutt’altro. Ma perchè discuterne? Andate a vedere con i vostri occhi, no?... No.
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Letters to Juliet, di Gary Winick, USA 2010, 105 M.
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