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MUSICA FOLK

L'ultimo dei barbuti, metà uomo e metà chitarra

La figura del cantastorie solitario non è mai stata tanto ricorrente come in questo primo spicchio di terzo millennio: centauri che risalgono alla preistoria della popular music, ma con una gran voglia di cantare dei tempi che corrono. Come Josh T. Pearson, che non a caso intitola il suo album The last of the country gentlemen


di Simone Dotto


Solo vent’anni fa non ci avremmo scommesso un centesimo, presi com’eravamo a profetizzare l’avvento della musica del Duemila e altre fantasie da pronipoti. Eppure la figura del cantastorie solitario non è mai stata tanto ricorrente come in questo primo spicchio di terzo millennio: centauri metà uomini-metà chitarra che risalgono alla preistoria della popular music, in materia di innovazione tecnologica l’equivalente di un homo erectus, hanno dalla loro una gran voglia di cantare dei tempi che corrono. E’ anche per averne incontrati già così tanti della stessa razza, che ci permettiamo di dubitare che Josh T. Pearson sia proprio “l’ultimo”, come il titolo della sua opera prima suggerirebbe. Quanto al “gentiluomo”, invece, nulla da eccepire.
 
Tra le poche cose che sappiamo di questo texano barbuto ci sono due prove che potrebbero rivelarsi decisive nel processo per anacronismo intentato ai suoi danni. La prima, a sua discolpa, è l’aver tentato di infilare almeno un piede nella modernità: siamo nel 2001 quando a capo di un trio elettrico tra il rock e il suo “post”, i Lift to Experience, incide un unico disco destinato a divenire un piccolo culto. È The Texas Jerusalem Crossroad, doppio concept-album su un pellegrinaggio postapocalittico che va dalla West Coast alla Terra Santa, roba da fare ingolosire anche Cormac McCarthy. Un precedente come questo la dice lunga sulla sindrome da “popolo eletto” degli americani e anticipa anche quella che è la seconda prova, stavolta a carico dell’imputato: perché, come si sarà capito ormai, il nostro è un religioso fervente, di quelli che le sei corde le usano soprattutto per cantare le lodi al Signore. E dei preachers come lui si perdono le tracce nella notte dei tempi.
 
Al decimo anno dalla scomparsa dei Lift to Experience, Josh T Pearson risorge proprio per cantare l’amore sacro e l’amor profano. Il pretesto per una nuova, inaspettata uscita discografica è infatti una storia dolorosamente privata: la perdita di una compagna, il tradimento, il senso di colpa per non essere riuscito a salvarla. Da bravo cantore cristiano - pensate a Dante, o a Pasolini - Pearson mira al Paradiso ma non si fa mancare nemmeno un girone dell’Inferno. Sentimenti nobili (ecco perché “gentleman”…) messi alla prova da un canto lungo e struggente: le sette elegie che lo compongono, stando alla leggenda, sono state incise una via l’altra nell’arco di due sole notti, all’interno di uno studio di registrazione berlinese. Tutte o quasi sforano i tempi e la forma della canzone, diventano dei veri e propri flussi di coscienza, monologhi in solitudine, confessionali costruiti sul pizzicato della chitarra. L’unico intruso a cui è dato intromettersi fra Josh e il suo struggimento è il violino di Warren Ellis – già sodale di Nick Cave, quindi ben rodato ai sermoni in rock – che fa capolino fra un brano e l’altro regalandoci un tocco di sospirato colore.
 
A leggerla così, pare un pianto. E in effetti lo è. Difficile godersi The last of the country gentlemen mentre si viaggia in autostrada, o dagli auricolari quando si fa jogging. Ma se si accetta di giocare alle sue condizioni i brani si schiudono e affascinano un ascolto dopo l’altro. L’accusa di anacronismo, quindi, finisce archiviata: dischi come questi non hanno tempo. Il problema, casomai, sarà trovarne un po’ del nostro, per poterlo apprezzare come merita.



Tags: cantautore, folk, Josh T. Pearson, recensione, Simone Dotto, The Last of the country Gentlemen,
13 Aprile 2011

Oggetto recensito:

Josh T. Pearson, The Last of the country Gentlemen, mute 2011

giudizio:



8.109
Media: 8.1 (10 voti)

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