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MUSICA ROCK

Vasco Brondi, il cantore degli anni zero è caduto nella rete

Secondo disco per il ferrarese che si fa chiamare Le Luci della centrale elettrica: tre anni fa un fenomeno innalzato a portavoce della nuova generazione, oggi la parodia di se stesso dileggiato o accolto con indifferenza. Ma sempre ad opera del web 


di Simone Dotto

 


In principio fu il tam-tam attraverso la rete. Un ragazzo di Ferrara che urlava e strimpellava la chitarra da una pagina internet, come tanti altri ce ne sono, e una produzione di cd fatti in casa: masterizzati, impacchettati e spediti - con tanto di dedica personale - all’indirizzo di chiunque si fosse fatto vivo per richiederlo. Poi venne la firma per un’etichetta (la Tempesta Dischi, di Pordenone), la benedizione di qualche guru dell’ambiente e il disco “vero”: e allora vai con le copertine dedicate, con i panegirici sul giovane fenomeno, con le sezioni culturali dei quotidiani che titolano al portavoce della nuova generazione. E infine eccoci qui: il fatidico secondo album fra le mani e un po’ di diffidenza - quando non indifferenza - nell’aria.
 
Questa, in breve, la parabola di Vasco Brondi, alias le Luci Della Centrale Elettrica. In breve ma neanche troppo. Quanto tempo ci è voluto per passare dagli esordi autarchici alle ovazioni della critica? E dal nuovo Vasco che cantava lo zeitgeist degli Anni zero al Generatore automatico di testi di Le Luci della centrale Elettrica, al “Brondi chi parla” o agli altri sfottò che ormai si trovano numerosi in giro per il web? Tre anni in tutto. Tre anni per esordire, salire e discendere la china: da homo novus della canzone d’autore a presunta parodia di stesso. Tre anni e già lo tirano per la giacchetta, perché si ripete e si assomiglia troppo. Ma in tre anni - dice il saggio che non ha paura di passare per eretico - non si evolveva nemmeno Bob Dylan.
 
Lo scarto rispetto al debutto ufficiale, Canzoni da spiaggia deturpata è effettivamente minimo. Qualche accorgimento in più nella produzione e un paio di musicisti davvero capaci, rimessi completamente al servizio del “solito” stile: che, a beneficio di chi si fosse perso le puntate precedenti, è fatto di tre-accordi-tre su chitarra distorta e di testi “a ritaglio”. Incollando citazioni (quella del titolo è di Leo Ferrè) e immagini a effetto con la tecnica del cut-up, si mette in soffitta l’idea “lineare” della canzone d’autore per guardare al dialetto frammentato e alla sloganistica veloce dei blogger. Un’idea che ha il merito di essere in linea coi tempi, che quando va male sfora un po’ nel giovanilismo facilone e quando va bene si fa scappare qualche passaggio azzeccato – poetico, addirittura. Il discorso artistico su Per ora noi la chiameremo felicità, paradossalmente, si potrebbe concludere già qui: piacerà a chi ha apprezzato la prova precedente e non farà cambiare idea a quelli che non tollerano il personaggio. Il classico disco destinato a “non spostare un voto”, se non quello di chi fino ad ora aveva ignorato il fenomeno.
 
Chi davvero fosse rimasto all’oscuro di tutto, invece, faticherà un po’ di più a spiegarsi come si è arrivati a questa specie di guerra santa. I discepoli del profeta generazionale da un lato e chi lo addita come un eretico dall’altra, con i militanti di entrambi gli schieramenti pronti a giurarvi che è da quella parte che loro sono stati, fin dal principio. Sarà, ma l’impressione è che dopo il culto iniziale e il piacere della scoperta, detrattori e ammiratori “estremisti” siano aumentati notevolmente man mano che la musica del ferrarese acquistava in popolarità.
 
Il passaggio dallo stadio di Nuova Promessa a quello di Vecchio Bollito fa parte di un ciclo metabolico veloce, che il mercato discografico ha sempre alimentato, come ogni altro mercato. Di fronte a questa logica la rete ha talvolta funzionato da utile alternativa, riportando alla luce un nome che riposava nella pace degli archivi già da un pezzo o evitando che qualche cosa di meritevole finisse nel tritacarne prima del tempo. Altre volte, invece, è proprio la facilità del successo “in linea” che accelera ancora di più il processo: s’innalzano monumenti equestri al primo (mal)capitato, solo per il gusto di farglieli cadere in testa un attimo dopo. Perlomeno in questo senso, Le Luci della Centrale Elettrica rimane un fenomeno molto rappresentativo dei tempi che corrono.



Tags: blog musicali, indie, le luci della centrale elettrica, Simone Dotto, vasco brondi, web,
17 Dicembre 2010

Oggetto recensito:

Le Luci della Centrale Elettrica, Per ora noi la chiameremo felicità, La Tempesta 2010 

 

giudizio:



8.505
Media: 8.5 (4 voti)

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