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TEATRO

Cechov a scena aperta

Il pubblico confinato sui palchetti e il protagonista che si aggira dal palco alla platea e fino al foyer. Silvia Pasello, regista e attrice, rilegge la riflessione (meta)teatrale de Il Canto del Cigno. Il suo studio di riscrittura s'intitola L'Angelo dell'inverno, e aggiunge altri tasselli all'esile ma complesso copione originale


di Igor Vazzaz

 


Una luce men che flebile schiude la visione d’un quadro scenico che pare una fotografia sfocata. I fasci dei pochi riflettori carezzano senza illuminarla, una figura umana. Esile, capelli corti, biancovestita. La sala del minuto ma suggestivo Francesco di Bartolo di Buti ha un’aria surreale nella sua platea desertificata: non è un forno (termine gergale con cui si indica la drammatica assenza di pubblico), ma una scelta registica; gli spettatori presenti, infatti, sono stati dirottati nei palchetti, allargando a dismisura lo spazio tradizionalmente destinato all’illusione. L’effetto è straniante: il palco, per paradosso, sembra ancor più distante, complice la centellinata illuminazione.
 
Silvia Pasello inizia a pronunciare le prime parole, che sono quelle di un’attrice rimasta chiusa, addormentata a teatro dopo la chiusura. Subito si fa chiara la coerenza della peculiare opzione scenografica in atto: gli arredi quasi del tutto assenti (eccezion fatta per un violoncello, un leggio, sulla sinistra, e qualche sedia, al centro) sono giustificati dal fatto che, in questa breve pièce, è il teatro stesso a farsi ambientazione, nel suo opaco barbaglio di luce, nella desolante e scarna nudità. Non bastasse, le tavole del palco butese, sfibrate, rigate, consunte da anni di calpestii d’attori (e che attori, se si considerano le stagioni che da lustri vengono presentate qui, pur con mezzi esigui), il muro umido del fondopalco, la stessa uscita di sicurezza, tutti elementi reali, dunque, acquistano nella trasfigurazione scenica una potenza sorprendente e del tutto consona alla recita..
 
L’esile testo che Anton Čechov scrisse oltre un secolo fa, acuta riflessione metateatrale sul ruolo dell’attore, è spunto e occasione cui attinge una messinscena non banale, dotata d’una propria specifica profondità. Silvia Pasello tratteggia, alternando un registro vocale neutro a momenti di leggera caricatura, il profilo di un’attrice giunta ai trentacinque anni di carriera, spesi, regalati al palcoscenico. E il mistero della recitazione, quel passaggio liminare e pericoloso che avviene nel rapportarsi ai personaggi, si dispiega nella memoria della professionista in scena: il teatro, che arte strana, inquietante. 
cechov.jpgQuella del musicista, del danzatore, affonda le radici in un saper fare (etimologicamente la radice del termine latino ars, artis) che è definibile con buona precisione: quella dell’attore no, è meno chiara, insinuata com’è tra le pieghe del cuore, dell’affettività umana, e quella macchina altrettanto misteriosa del corpo in scena.
 
La riscrittura cui Silvia Pasello sottopone il monologo čechoviano (nel testo originale, Il canto del cigno, il protagonista è maschile) si arricchisce ancora, allorquando l’attrice della finzione, richiamando alla mente una carriera di successi e rimpianti, si cimenta nell’interpretazione di Re Lear e altri testi ancora, complicando ulteriormente l’acuta serie di livelli scenici, gioco di matrioske inserite l’una nell’altra. E palco diviene la platea, l’uscita centrale, persino il foyer, da cui il pubblico, immobile nei palchetti, sente la voce dell’attrice prima del suo ritorno nel campo visivo.
 
Non è (ancora) omogeneo questo Čechov catapultato nel Novecento, anzi oltre, e non per gli inserti realmente biografici che l’artista ha applicato alla partitura testuale: certo, la voce registrata di Carmelo Bene (con cui Silvia Pasello ha lavorato nel 1995, in Macbeth Horror Suite) che, alla fine, irrompe dai diffusori acustici ha un effetto d’indubbia potenza e, tutto sommato, non pare una trovata gratuita. Piuttosto, questo omaggio, denso e non banale, al mestiere degli atleti del cuore abbisogna probabilmente di maggior fluidità, un movimento e una brillantezza da acquisire soltanto con la consuetudine delle repliche, destino che, in tutta sincerità, ci sentiamo di augurare.



Tags: Cechov, Igor Vazzaz, il canto del cigno, l'angelo dell'inverno, meateatro, recensione, Silvia Pasello, teatro,
27 Marzo 2012

Oggetto recensito:

L’angelo dell’inverno, da Il canto del cigno di Anton Čechov, studio di e con Silvia Pasello

Il resto della locandina: Valeria Foti, creazione luci; Ares Tavolazzi, musiche; produzione Associazione Teatro Buti in collaborazione con Fondazione Pontedera Teatro
 
Prossimamente: Buti, T. Francesco di Bartolo, 29-31 marzo
 
Atleta del cuore: definizione (e auspicio) dell’attore da parte di Antonin Artaud
 
Silvia Pasello: formatasi tra Bologna e Ferrara (dove è nata), ha collaborato da attrice con importanti maestri italiani e non (da Jerzj Sthur a Marisa Fabbri, da Ingemar Lindh a Ryzard Cieslak, per non dire di Roberto Bacci, Alfonso Santagata, Carmelo Bene, la Societas Raffaello Sanzio). Tre volte vincitrice del premio Ubu come interprete (nel 1986 per A. da Agatha, regia di Thierry Salmon, nel 1997 per Macbeth Horror Suite di Carmelo Bene, nel 1998 per Temiscira 3 di Thierry Salmon) e una volta dell’Eleonora Duse (1990, con La mite del CSRT), è senza il minimo dubbio una delle migliori attrici del teatro italiano. Da vari anni si cimenta anche come regista

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