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TEATRO

Un Leopardi cosmico

Da maestro cerimoniere ufficiale del centocinquantenario, il regista Mario Martone fa le cose in grande. E dopo Noi credevamo, ci propone un'altra maratona, questa volta a teatro, sui dialoghi delle Operette Morali. Per chi riesce ad arrivare alla fine, una gran soddisfazione. A tutti gli altri la nostra recensione propone una... scorciatoia


di Giulia Stok

Foto di Simona Cargnasso, Teatro Stabile Torino


Le celebrazioni risorgimentali di Mario Martone stanno prendendo una netta deriva ronconiana, per lo meno nel senso della durata: dopo le quasi tre ore di kolossal cinematografico di Noi credevamo (leggi la nostra recensione), ecco le tre abbondanti di kolossal teatrale delle Operette morali. “Le antiche commedie non erano propriamente azioni, ma satire immaginose, fantasie satiriche, drammatizzate, ossia poste in dialogo”, scriveva Leopardi pochi anni prima di iniziare le Operette. Il che, se da un lato ci fa pensare che si tratti di un testo intrinsecamente adatto al teatro, dall’altro lo smentisce: a questo tipo di teatro, fatto di fantasie satiriche, siamo ormai ben poco abituati.
 
E un po’ di timore viene, durante il primo dei diciotto brani messi in scena, la Storia del genere umano, monologo affidato a un Maurizio Donadoni/Giove in tunica bianca e piedi nudi sulla terra bruna che ha sostituito la platea dell'ottocentesco teatro Gobetti. La spiazzante scenografia di Paladino ha il grande merito di ampliare la scena, creando innumerevoli varianti di movimento e prospettiva, che vivacizzano lo scorrere delle parti, e di porre gli attori più vicini al pubblico. Ma Donadoni, che ha anche l’ingrato compito di fare da narratore, accompagnando quasi il pubblico attraverso le diciotto scene, nonostante una buona presenza scenica scivola sulle parole, scorre senza farle assaporare. Paradossalmente, l’atteggiamento canzonatorio di Giove verso tutto il genere umano potrebbe funzionare benissimo anche senza che aprisse bocca.
 operettemorali.jpg
Quest’infelice proemio è uno dei pochi, e forse il più grande, punto debole di questo spettacolo, che ha invece molti meriti: primo fra tutti l’idea, sicuramente coraggiosa, che in questo tempo di celebrazioni unitarie possa passare, e attrarre, anche la cultura ostica, difficile. Che non sia uno spettacolo per tutti, lo si vede comunque anche dalla postura del pubblico, un buon terzo del quale vergognosamente accasciato sulle poltrone già prima della fine del primo tempo. E quando gli attori sono così vicini da poter quasi toccare la fatica e il prodigio di recitare un testo così lungo e difficile, interpretandone ognuno parti diverse e scollegate, l’ostentazione del disinteresse è a maggior ragione vergognosa. (Ora, chi di voi vuole seguire passo passo le scene, continui a leggere di seguito. Chi ha meno tempo ma vuole farsi un’idea generale risparmiandosi la recensione kolossal, passi pure oltre cliccando qui).
 
Comunque, coraggio: lo spettacolo prende la sua forma, e si alleggerisce, nel Dialogo d’Ercole e Atlante, con un Ercole ragazzino cavernicolo e sciocco, interpretato da un convincente Giovanni Ludeno, e un Renato Carpentieri Atlante, grandioso in tutto lo spettacolo e in tutte le vesti – e peraltro sempre, quando nei panni di un dio, rassicurante, benevolo e protettivo nei confronti del genere umano - che giocano a palla con il mondo.
 
E poi, se Donadoni potrebbe essere solo corpo, chi invece sembra essere pura voce sono le due attrici che irrompono sul palco con teste di pianeti illuminati, per il Dialogo della Terra e della Luna condotto da Franca Penone e Barbara Vilmorin con toni profondi, avvolgenti e ammalianti, in scenario e costumi fantasmagorici che sembrano un omaggio al cinema di Meliés.
 
Gustoso anche il Dialogo di un folletto e di uno gnomo (con un Marco Cavicchioli tanto convincente nella parte gnomesca da farcelo guardare con sospetto anche quando, operettemorali4.jpgnelle scene successive, discute con la Natura nei panni dell’Islandese) per l’ironia sulla presunzione, comune a ogni specie, che il mondo sia stato creato proprio per lei stessa. Uno dei grandi pregi del testo e dello spettacolo è metterci di fronte a “noi visti dagli altri”, che siano dèi che ci amano o semplicemente ci osservano con superiorità.
 
Con il Dialogo di Malambruno e Farfarello entra in azione Roberto di Francesco, che da un paio di scene era accasciato su un tavolo di legno con un fiasco di vino, nelle vesti di un Leopardi sognante e depresso, che interpreterà più o meno per tutto lo spettacolo, più o meno sotto mentite spoglie. Se lo stile diventa mistico orientale nel Dialogo della Natura e di un’Anima, torna invece commoventemente umano in Torquato Tasso e il suo genio familiare, dialogo doloroso sulla perdita della donna e sugli inganni dell’amore in generale. In Timandro ed Eleandro il folletto Paolo Musio diventa un perfetto signore ottocentesco, fautore del progresso, che si oppone al De Francesco-Leopardi-Eleandro che continua a fare l’outsider, l’enunciatore di verità scomode che non cede a compromessi e, in fondo, resta escluso dal suo tempo.
 
La parte seconda inizia con più brio, dopo la chiusa quasi scherzosa, benché macabra, del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. E così ne La scommessa di Prometeo ritorna il duo Ludeno-Carpentieri, che arrivano con cappello a cilindro e bastone su un treno volante che fa "ciuf-ciuf" a verificare i progressi del genere umano, e si trovano a scontrarsi con le prove della sua inettitudine, malvagità, stupidità, in ogni periodo della Storia, con grande delusione del buon Carpentieri-Prometeo. Geniale e inquietante per la sua attualità il Dialogo della Moda e della Morte, in cui si ripropone l’ottimo duo femminile, questa volta ruotando intorno a uno specchio riflettente luce: le due sono sorelle, e la più giovane e timorosa Moda ha sempre lavorato in favore della Morte
 
Assurda invece la scelta di proporre il Cantico del Gallo Silvestre, che decisamente sopravvaluta la capacità di concentrazione dello spettatore a quel punto; poco più che omaggio dovuto il Dioperettemorali2.jpgalogo tra un venditore di almanacchi e un passeggere, mentre si toccano di nuovo vette di eccellenza e di grande emozione con Plotino e Porfirio, in cui si fronteggiano Carpentieri e Valmorin discutendo di suicidio e di amicizia. Di nuovo attuale in modo inquietante il Dialogo di Tristano e un amico: è “un secolo di ragazzi, che vogliono fare quello che in altri tempi hanno fatto gli uomini, ma senza alcune fatiche preparatorie”. Chiusura amara, ma tutto sommato con un filo di speranza, tra Donadoni-Cristoforo Colombo e Carpentieri-Gutierrez, in viaggio verso le Americhe.
 
L’opposizione leopardiana tra “una solida razionalità di stampo illuministico e l’attrazione nostalgica per un mondo fantastico, vagheggiato e perduto” come dice la drammaturga Ippolita de Majo, prende vita nell’alternanza di scene mitologiche, con tuniche e allegorie, e altre storiche, con personaggi allestiti di tutto punto alla moda ottocentesca. Convincenti la scenografia, i costumi, le luci, quasi tutti gli attori e, quasi sempre, la regia: ma la sorpresa più grande è che decidendo di ripescare Leopardi, magari pensando di rispolverarlo, ci si è accorti invece che non c’era nessuna polvere, ma lui se ne stava lì bello lucente, attualissimo, e le sue critiche sono un ottimo specchio dei nostri tempi. Che di questo, poi, ci sia da rallegrarsi o meno, è un altro discorso.



Tags: Giacomo leopardi, Giulia Stok, Mario Martone, Maurizio Donadoni, Noi credevamo, operette morali, Renato Carpentieri, risorgimento, Teatro Gobetti, unità,
04 Aprile 2011

Oggetto recensito:

OPERETTE MORALI DI GIACOMO LEOPARDI, REGIA DI MARIO MARTONE

Prossimamente in scena: fino al 10 aprile, Torino, Teatro Gobetti; dal 3 al 15 maggio, Roma, Teatro Argentina
Produzione: Fondazione del Teatro Stabile di Torino
Il resto della locandina: scene Mimmo Paladino, costumi Ursula Patzak, luci Pasquale Mari, suoni Hubert Westkemper, dramaturg Ippolita di Majo, aiuto regia Paola Rota, scenografo collaboratore Nicolas Bovey
Cast: Renato Carpentieri, Marco Cavicchioli, Roberto De Francesco, Maurizio Donadoni, Giovanni Ludeno, Paolo Musio, Totò Onnis, Franca Penone, Barbara Vilmorin. Se Donadoni è sempre uguale a se stesso e Onnis un po’ troppo piano, gli altri danno grandi prove d’attori: su tutti Carpentieri, seguito a ruota da De Francesco, Vilmorin e Penone. A tutti va dato il merito del grande sforzo mnemonico e fisico, per tre ore abbondanti di spettacolo con un solo intervallo e le molte parti sostenute
Leopardi e Martone: questo spettacolo è l’ideale prosecuzione de L’opera segreta, messa in scena nel dicembre 2004, ispirata al lungo soggiorno napoletano del poeta

giudizio:



8.604
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