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TEATRO - OPERA

Wagner dopo la tempesta

L'Olandese Volante riproposto nell'allestimento diretto da Harmut Haenchen, fa storcere il naso ai melomani, come accadde nel 1843 al Teatro di Corte di Dresda. La Scala accoglie tiepidamente un'interpretazione che sottrae il mare dai vascelli e ambienta all'interno un'opera ancora largamente incompresa 


di Sergio Buttiglieri

 


Divertente osservare la reazione del pubblico scaligero nell’intervallo e al termine di questo singolare Olandese Volante, in scena fino a metà marzo nel tempio del melodramma italiano. Il regista tedesco Andreas Homoki ha reso orfani i melomani dai canonici vascelli sbattuti dalla tempesta che tutti si aspettavano come piatto forte di questa acerba opera wagneriana che debuttò il 2 gennaio del 1843 al Teatro di Corte di Dresda ricevendo un'accoglienza tiepida (rimase in scena solo per 4 repliche).
 
Fin dall’inizio, quindi, l'opera non ha conquistato le orecchie biedermaier, tanto impietosamente priva di abbondanze melodiche che i critici dell’epoca si affrettarono a classificarla come “l’opera più noiosa che sia mai stata rappresentata”. Il gusto decadentista borghese dell’era guglielmina non percepì la portata innovativa del “declamato melodico” dell’Olandese Volante, precursore incompreso dei suoi successivi irti capolavori ricchi d’incognite.
 
Questa volta ci troviamo di fronte all'inaspettata ambientazione ideata da Wolfgang Gussmann, tutta giocata all’interno di una banca ottocentesca, ricca di severe boiserie e di scrivanie con travet al lavoro fra scartoffie e grandi pannelli appesi alle pareti che, pur rappresentando un mare in burrasca, ricordano da vicino gli attuali tabelloni delle Borse dove ossessivamente, attraverso i tg, teniamo d'occhio le tempeste finanziarie quotidiane. 
 
der-fliegende-hollaender5.jpgSolitamente nelle rappresentazioni di quest’opera abbiamo ritrovato convenzioni e novità, laddove le prime, rifletteva scherzosamente Attilio Bertolucci, “sono quelle che fanno tirare il fiato al pubblico pigro che scambia il coro delle filatrici come la parte migliore della rappresentazione non accorgendosi che per Wagner si tratta della sfottitura dell’opera francese con le sue grazie civettuole”. Ma in questo allestimento neppure quel sollievo ci è stato completamente concesso; si, hanno cantato, e dirette egregiamente da Bruno Casoni, ma più che filatrici questa volta sembravano le impiegate occhialute in una fabbrica statale di oltre cortina sorvegliate dalla severa capufficio Mary/Rosalind Plowright.
 
Il direttore Harmut Haenchen, nato proprio a Dresda, grande esperto wagneriano, con una interessante serie di testi musicali sull’autore di cui si celebra quest’anno il bicentenario della nascita, dirige con precisione filologica, a cominciare dalla timbrica violenza della sicurissima ouverture, questa partitura dal colore livido e tempestoso, un colore che non è veramente interrotto dalla cupa ballata di Senta - ottimamente interpretata in tutta l’estesissima gamma da Ania Kampe - e dal musicale “interno” del secondo atto, ma semmai dai troppo melodrammatici duetti che lo concludono. Perché il meglio dell’Olandese, e Hanchen lo ha bene in mente, non sta qui, ma quando nasce e si diffonde la sua sublime monotonia, e nell'arte di scoprire il valore musicale dei silenzi.
 
L’imponente baritono Bryn Terfel, protagonista assoluto dell’opera, sembrava uscito dalla “rima” di Coleridge. Un Olandese che è una sorta di Assuero dell’Oceano in cerca di redenzione, è in fondo anche l’ennesimo archetipo che discende dall'omerico Odisseo, dal Cacciatore nero e dal Faust stesso. In lui, notava argutamente Eugenio Montale, “c’è la condizione essenziale di ogni religio: la necessità, anzi la centralità del sacrificio, dell’offerta sacrificale”. Non è un caso che proprio in quegli anni Kierkegaard ci ricordasse: “insondabile è la colpa ad occhi umani e davanti all’accusa divina l’uomo ha sempre torto”.
 
Le parti di Erik/ Klaus Florian Vogt, l’amante non ricambiato, e di Daland/Ain Anger, padre di Senta interessato al denaro dell’Olandese, per Wagner rappresentano il "terrestre" e sono chiaramente simbolo della banalità del quotidiano, dei meri riempitivi scenici. Al compositore di Lipsia interessava solo la figura dell’Olandese, in qualche modo, come ci ricorda Quirino Principe nell’esemplare libretto di sala, “fratello germano della nave dei cadaveri incontrata da Gordon Pym di E. A. Poe”. Ma tutto ciò è passato in secondo piano per la maggior parte degli spettatori milanesi dall’animo irriducibilmente verdiano, che dopo i tiepidi applausi sono corsi a recuperare i cappotti commentando con sconsolato disappunto la cerebrale rappresentazione coprodotta dall’Opernhaus di Zurigo e dal Den Norske Opera &Ballett di Oslo; teatri questi con un pubblico ben più avvezzo a tali algide messe in scena.



Tags: Andreas Homoki, Harmut Haenchen, Olandese Volante, opera, recensione, Sergio Buttiglieri, teatro della scala, Wagner,
11 Marzo 2013

Oggetto recensito:

L'olandese volante di Richard Wagner, diretto da Harmut Haenchen

Visto a: La Scala, Milano, il 3 marzo
 
Prossimamente: repliche il 12 e il 15 marzo 

giudizio:



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